Cadute causate da buche o sconnessioni: le responsabilità

Le cadute determinate da buche, sconnessioni a avvallamenti di strade e marciapiedi rappresentano uno delle più frequenti cause di danno per i pedoni (e non solo) e quindi uno dei motivi più ricorrenti di contenzioso con la Pubblica Amministrazione.

La quale, però, per andare indenne da responsabilità, non può limitarsi a puntare sulla condotta colposa delle vittima o sulla sua disattenzione perché essa, una volta dedotta la presenza dell’anomalia stradale dovuta a carente manutenzione, può valere a integrare il caso fortuito soltanto se presenta caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno”. A rifermare con forza questo sacrosanto principio a tutela dei danneggiati la Cassazione con l’ordinanza n. 36901/22 depositata il 16 dicembre 2022, con la quale peraltro la Suprema Corte si è espressa su una vicenda dagli esiti tragico.

 

I familiari di una donna deceduta per una rovinosa caduta citano la Provincia dell’Aquila

I familiari di una donna avevano citato in giudizio la Provincia dell’Aquila per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti al decesso della loro cara, avvenuto a causa di complicazioni intra-operatorie verificatesi durante l’intervento di riduzione delle fratture riportate il 4 settembre 1998 a seguito della rovinosa caduta causata da una buca presente nella strada provinciale che attraversava il centro abitato di Civita D’Antino. Il tribunale di Avezzano, tuttavia, aveva rigettato la domanda e la Corte di Appello dell’Aquila, con sentenza del 2019, aveva respinto anche l’impugnazione proposta dagli eredi delle vittima, condannandoli anche al pagamento delle spese di lite.

I giudici territoriali rigettano la domanda in forza della condotta colposa della vittima

Secondo i giudici il testimone della caduta, le cui dichiarazioni erano state ritenute “lacunose e poco credibili”, non avrebbe visto esattamente dove e come fosse caduta la donna, e la mezzaluna priva di asfalto e posta sotto l’erba che cresceva sulla banchina, che lo stesso teste aveva riferito di aver visto sul luogo della caduta, non sembrava poter “assumere le caratteristiche di una buca o di un’insidia di qualunque genere”, per citare la sentenze.

Inoltre, la Corte territoriale aveva sottolineato come il testimone non avesse riferito che la donna era caduta per aver messo il piede in una buca, e neppure le dichiarazioni di un’altra testimone, che aveva affermato di avere visto una buca coperta da erba nei pressi del luogo ove era caduta la vittima, avrebbero consentito di ritenere provato l’esatto punto in cui si era verificata la perdita di equilibrio. Per i giudici di secondo grado, poi, anche le dichiarazioni di un dipendente della Provincia, che aveva riferito dell’esistenza di un “piccolo avvallamento tra il piano bitumato della strada e la banchina in terra”, nulla avrebbero aggiunto per meglio comprendere la dinamica del fatto, ossia per individuare il punto esatto della caduta.

La Corte concludeva quindi ritenendo dubbia la dimostrazione del nesso di causalità tra le incerte condizioni della strada provinciale e il danno, e in ogni caso, anche a volerlo presumere, la donna secondo i giudici “non avrebbe dovuto fare cieco affidamento sulla assenza di anomalie, non del manto stradale, per vero neanche dedotte, ma della banchina in terra posta al suo margine”. E questo in quanto il sinistro era avvenuto in pieno giorno, con perfette condizioni di visibilità, e dalla documentazione era emerso che la banchina a bordo strada percorsa dal pedone “era caratterizzata dalla presenza di vegetazione, sassi e terra nonché connotata da evidenti disconnessioni del ciglio stradale ai margini della parte asfaltata derivandone una piena avvistabilità di qualsivoglia buca, mezzaluna o avvallamento che dir si voglia”.

In conclusione, secondo i giudici la vittima avrebbe potuto “avvistare tempestivamente ed evitare la situazione di pericolo” e non l’aveva percepita “a causa di un’inutile e repentina fuoriuscita dalla sede stradale asfaltata, non necessitata”. La circostanza che la donna percorresse la “sede bitumata”, secondo la Corte territoriale, rendeva evidente il fatto di come essa fosse consapevole del dissesto in cui si trovava la banchina, le cui condizioni dovevano esserle ben note in quanto la donna, che abitava a 300 metri di distanza dal luogo della caduta, percorreva periodicamente quel tragitto, almeno due volte al giorno.  Insomma, ad avviso dei giudici la condotta della danneggiata appariva indubbiamente tale da integrare “l’ipotesi di caso fortuito idoneo a recidere il nesso causale tra la cosa e il danno”, e la “attribuibilità esclusiva” dell’evento dannoso alla condotta colposa del danneggiato (in assenza della quale esso non si sarebbe verificato nonostante l’anomalia del manto stradale) non avrebbe lasciato spazio alla configurabilità di un “concorso di colpa” della Provincia custode della strada, o meglio, non consentiva di valutare la condotta colposa del danneggiato quale mera concausa del sinistro tale da ridurre, ma non escludere, la responsabilità oggettiva del custode.

 

I congiunti ricorrono per Cassazione lamentando la mancata prova di una condotta anomala

I congiunti della vittima hanno quindi proposto ricorso anche per Cassazione sostenendo che la Corte d’appello avrebbe errato nell’aver ritenuto che la condotta della vittima avesse integrato gli estremi del caso fortuito, ai sensi dell’art. 2051 c.c., quale esimente della responsabilità della Pubblica Amministrazione, nonostante quest’ultima non avesse fornito alcuna prova in merito. E rilevando come al custode si richieda sempre “la prova positiva della causa esterna che, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, sia completamente estranea alla sua sfera di controllo” e, quand’anche si palesi una condotta negligente, distratta, imperita e imprudente della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basti di per sé ad escludere la responsabilità del custode.

I ricorrenti hanno dunque lamentato il fatto che la Corte territoriale aveva “inammissibilmente invertito l’onere della prova”, laddove aveva presunto che l’evento fosse evitabile con una condotta più prudente della vittima in assenza di prova della imprudenza o negligenza della danneggiata, prendendo in esame solo la natura colposa della condotta della vittima, senza verificare se quella condotta potesse ritenersi imprevedibile, eccezionale od anomala, da parte del custode.

Infine, gli eredi della donna hanno censurato il fatto che la sentenza impugnata avesse ritenuto che l’evento dannoso fosse da addebitare in maniera esclusiva alla vittima, presumendo che le condizioni della banchina le fossero ben note, sulla base del fatto che quest’ultima risiedeva nei pressi del luogo del fatto, rilevando che l’argomento valorizzato dalla Corte territoriale finiva “per far gravare sul cittadino l’obbligo cautelare di conoscere e ricordare l’ubicazione delle buche che stanno nelle vicinanze dei luoghi che frequenta solitamente” per citare il ricorso.

La Suprema Corte accoglie le doglianze e fa chiarezza sulla responsabilità ex art. 2015 c.c.

Ebbene, secondo la Suprema Corte i motivi di doglianza sono fondati. Gli Ermellini rilevano innanzitutto come la sentenza impugnata, nella realtà, non abbia preso una chiara posizione in punto di nesso causale fra la presenza della buca e la caduta della della donna.

Pur avendo manifestato riserve sulla concludenza delle dichiarazioni testimoniali e pur essendosi espressa in termini dubitativi, la Corte di Appello ha mostrato di non escludere che la caduta sia stata causata dalla buca presente nella banchina stradale, dato che ha affermato la possibilità di presumere il nesso e ha sviluppato ampie considerazioni sul fatto che la caduta fosse imputabile esclusivamente alla condotta disattenta, negligente o imperita della danneggiata, per non aver avvistato tempestivamente ed evitato la situazione di pericolo determinata dal dissesto della banchina” osservano i giudici del Palazzaccio: considerazioni che i giudici territoriali non avrebbero avuto ragione di svolgere “ove avesse effettivamente ritenuto non provato il nesso causale”.

 

L’onere probatorio in capo a danneggiato e custode

Fatta questa fondamentale premessa, la Cassazione ricorda come la responsabilità ex art. 2051 c.c. abbia natura oggettiva e discenda dall’accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, “salva la possibilità per il custode di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga ad elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima”. Essendo tale la struttura della responsabilità ex art. 2051 c.c., l’onere probatorio che grava sul danneggiato si sostanzia, prosegue la Suprema Corte, “nella duplice dimostrazione dell’esistenza (ed entità) del danno e della sua derivazione causale dalla cosa, residuando a carico del custode l’onere di dimostrare la ricorrenza del fortuito”.

Nell’ottica della previsione dell’art. 2051 c.c., tutto si gioca dunque sul piano di un accertamento di tipo causale – della derivazione del danno dalla cosa e dell’eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito -, “senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la cosa avesse o meno natura insidiosa o la circostanza che l’insidia fosse o meno percepibile ed evitabile da parte del danneggiato, trattandosi di elementi consentanei ad una diversa costruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell’art. 2043 c.c.”.

 

La condotta del pedone integra il fortuito solo se imprevedibile e imprevenibile

Pertanto, al cospetto dell’art. 2051 c.c., la condotta del danneggiato può rilevare unicamente “nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all’origine del danno: deve pertanto ritenersi che, ove il danno consegua all’interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l’agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una cesura rispetto alla serie causale riconducibile alla cosa, degradandola al rango di mera occasione dell’evento di danno”.

E anche se colposa non interrompe il nesso di causa, al più comporterà un minor risarcimento

Venendo quindi al caso specifico della caduta del pedone in corrispondenza di una buca stradale, “non può evidentemente sostenersi che la stessa sia imprevedibile (rientrando nel notorio che la sconnessione possa determinare la caduta del passante) e imprevenibile, sussistendo, di norma, la possibilità di rimuovere il dislivello o, almeno, di segnalarlo adeguatamente” ribadisce con forza la Cassazione, riaffermando il principi che “il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non è idoneo a interrompere il nesso causale, che è manifestamente insito nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla (prevedibile e prevenibile) interazione fra la condizione pericolosa della cosa e l’agire umano”.

Questo peraltro non significa, precisano gli Ermellini,  che tale condotta, ancorché non integrante il fortuito, non possa assumere rilevanza ai fini della liquidazione del danno cagionato dalla cosa in custodia, ma questo non può avvenire all’interno del paradigma dell’art. 2051 c.c., bensì ai sensi dell’art. 1227 c.c. (operante, ex art. 2056 c.c., anche in ambito di responsabilità extracontrattuale), ossia sotto il diverso profilo dell’accertamento del concorso colposo del danneggiato, valutabile sia nel senso di una possibile riduzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa del danneggiato e le conseguenze che ne sono derivate (ex art. 1227, 1° co. c.c.), sia nel senso della negazione del risarcimento per i danni che l’attore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (ex art. 1227, 2° co. c.c.), fatta salva, nel secondo caso, la necessità di un’espressa eccezione della controparte”.

In conclusione, la Suprema Corte afferma che, “ove sia dedotta la responsabilità del custode per la caduta di un pedone in corrispondenza di una sconnessione o buca stradale, la condotta colposa della vittima può valere a integrare il caso fortuito richiesto dall’art. 2051 c.c. soltanto se presenti caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, così da degradare la condizione della cosa al rango di mera occasione dell’evento di danno”; in difetto, tale condotta potrà – eventualmente – assumere rilevanza ai sensi dell’art. 1227, 1° o 2° co. c.c., “ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento”.

Criteri, questi, a cui la Corte territoriale nel caso di specie non si è affatto attenuta, avendo ritenuto di poter senz’altro individuare il fortuito nella condotta disattenta del pedone, “del tutto prescindendo dall’accertamento della non prevedibilità e della non prevenibilità di tale condotta e della sua idoneità a sovrapporsi al modo di essere della cosa, elidendone l’efficienza causale e degradandola a mera occasione dell’evento di danno”.

La sentenza è stato pertanto cassata con rinvio alla Corte territoriale che, in diversa composizione, dovrà procedere a nuovo esame della causa alla luce dei principi e delle considerazioni riaffermati nella circostanza.

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