Il “vademecum” della Cassazione sul consenso informato

Più di qualcuno ha già parlato di “nuove sentenze di San Martino”, a sottolineare la rilevanza e il legame tra gli assunti.

Proprio nel giorno, l’11 novembre 2019, dell’undicesimo anniversario del quartetto di decisioni “gemelle” rese a sezioni unite, nn. 26972-26975/2008, la terza sezione della Corte di Cassazione ha depositato una “raffica” di sentenze, che riscrivono, profilo per profilo, le regole della responsabilità medica e sanitaria. Tra queste ben quattro delineano i confini del consenso informato, che è il tema specifico di approfondimento, il particolare la sentenza n. 28985/2019.

Un pronunciamento eloquente da parte della Suprema Corte che ribadisce come la responsabilità sanitaria emerga per la lesione del diritto all’autodeterminazione, e come l’assenza del consenso informato del paziente rilevi anche se le conseguenze dannose non sono direttamente connesse a terapia, ma sono complicanze o aggravamento di patologie pregresse.

Su questa base è stato riconosciuto il danno per una donna sottoposta a radioterapia più intensa visto il pregresso e non soddisfacente risultato con applicazione meno intensa.

 

Paziente danneggiata dalle troppe dosi di radioterapia

Una paziente e il marito avevano citato in causa avanti il Tribunale di Bari un Istituto Tumori per ottenere il risarcimento dei danni patiti a causa delle eccessive dosi di irradiazione della terapia radiante che le era stata somministrata per curare un linfogranuloma di Hodgkin.

I giudici però, con sentenza del 2010, avevano rigettato la domanda in quanto all’epoca, il 1989, la mielopatia trasversa non era annoverata tra le conoscenze scientifiche dei rischi che potevano derivare dal trattamento radioterapico, e riscontrando che i medici che avevano praticato la terapia avevano correttamente osservato i protocolli di cura del tempo.

Il tribunale aveva respinto anche la domanda di risarcimento per omessa acquisizione del consenso informato sui rischi del trattamento terapeutico, in quanto estinto in diritto per prescrizione.

In riforma della sentenza di primo grado, tuttavia, la Corte d’Appello di Bari dichiarava sì inammissibili in quanto tardive le domande nuove proposte dai danneggiati nei confronti delle compagnie assicurative chiamate in garanzia dall’istituto oncologico, ma accertava altresì la responsabilità per inadempimento della prestazione sanitaria, in quanto il rischio di mielopatia dorsale, se pure raro, risultava in realtà già allora segnalato dalla dottrina scientifica.

E comunque, secondo i giudici di secondo grado, i risultati positivi già ottenuti all’esito del precedente trattamento chemioterapico non giustificavano l’alto dosaggio di radiazioni somministrato. Di qui la condanna dell’ospedale al risarcimento del danno non patrimoniale in favore di entrambi i danneggiati, calcolato sulla base delle tabelle milanesi.

 

Il dovere di informare il paziente vige anche al di là del vincolo contrattuale

L’istituto oncologico ha quindi appellato la sentenza per Cassazione con sette motivi. Quello che qui interessa riguarda ovviamente l’accertamento del diritto risarcitorio per il mancato consenso informato che pure era stato riconosciuto in appello.

I ricorrenti hanno obiettato tra l’altro che, sia le norme dell’Unione Europea, sia la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo, che prescrivevano nei rapporti tra medico e paziente la necessità del preventivo consenso informato, erano successive ai fatti e, dunque, al tempo del trattamento terapeutico, non poteva integrare inadempimento contrattuale la mancata acquisizione del consenso del paziente. E che, in ogni caso, essendo ignota, al tempo, la “complicanza” del mieloma, veniva meno il nesso eziologico tra carenza del consenso ed evento lesivo.

Ma per la Cassazione il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

Innanzitutto, la Suprema Corte evidenzia come le norme comunitarie ed internazionali richiamate dai ricorrenti “non hanno fatto altro che recepire quello che era già considerato un dovere informativo oggetto della obbligazione assunta dal medico verso il paziente con il rapporto di assistenza sanitaria.

Deve ritenersi, infatti, ormai definitivamente acquisito nella giurisprudenza di legittimità che la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione proprio della persona fisica (la quale in piena libertà e consapevolezza sceglie di sottoporsi a terapia farmacologica o a esami clinici e strumentali, o ad interventi o trattamenti anche invasivi, laddove comportino costrizioni o lesioni fisiche ovvero alterazioni di natura psichica, in funzione della cura e della eliminazione di uno stato patologico preesistente o per prevenire una prevedibile patologia od un aggravamento della patologia futuri), che – se pure connesso – deve essere tuttavia tenuto nettamente distinto – sul piano del contenuto sostanziale – dal diritto alla salute, ossia dal diritto del soggetto alla propria integrità psico-fisica

A questo diritto corrisponde quindi l’obbligo del medico (“di fonte contrattuale o comunque correlato ad analoga obbligazione ex lege che insorge dal cosiddetto contratto sociale) di fornire informazioni dettagliate, “in quanto adempimento strettamente strumentale a rendere consapevole il paziente della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative”.

Il medico è comunque tenuto, in ogni caso, a rendere edotto il paziente, indipendentemente dalla riconducibilità o meno di tale attività informativa ad un vincolo contrattuale o ad un obbligo legale, “trovando titolo il dovere in questione nella qualificazione “illecita” della condotta omissiva o reticente, in quanto violativa di un diritto fondamentale della persona, e dunque da ritenere “contra jus”, indipendentemente dalla sussunzione del rapporto medico-paziente nello schema contrattuale o del contatto sociale, ovvero dell’illecito extracontrattuale: ai fini della verifica della violazione del diritto alla autodeterminazione, non assume, dunque, alcun rilievo la modifica legislativa della natura della responsabilità professionale medica, trasformata da contrattuale o paracontrattuale ad extracontrattuale, operata dalle leggi intervenute nel 2012”.

 

La Legge 22 dicembre 2017, n. 219

Fatta questa premessa, gli Ermellini ricordano che l’obbligo informativo in questione ha trovato definitivo inquadramento, come obbligo ex lege, la cui violazione integra responsabilità penale e civile, nella L. 22 dicembre 2017, n. 219, art. 1, commi 3-6, art. 3, commi 1-5 e art. 5 (recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), la quale prescrive che: “ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.

Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole”.

E ancora che: “il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”, e che il consenso “deve essere acquisito secondo le modalità prescritte – anche dai soggetti incapaci naturali e legali minori, interdetti, inabilitati ed amministrati”.

Insomma, il mero dato cronologico riferito alle fonti di diritto comunitario ed internazionale “non è argomento spendibile per sostenere la inesistenza nel 1989 di un corretto obbligo informativo sulla tipologia e modalità delle cure, sui benefici conseguibili, sui possibili effetti indesiderati, sul rischio di complicanze anche peggiorative dell’attuale stato di salute”.

 

Il nesso eziologico

Per quanto riguarda poi la censura riguardante la carenza del nesso eziologico tra mancanza del consenso informato e danno alla salute, secondo la Suprema Corte è “inammissibile per carenza di interesse, in quanto l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo informativo non riveste, nella fattispecie, rilievo causale determinante nella produzione del “danno biologico”, né di alcun altro danno di qualsiasi natura”.

La Corte territoriale, infatti, pur avendo affermato che il peggioramento dello stato di salute della paziente doveva ritenersidanno-conseguenza pure di tale violazione (omessa acquisizione del consenso) e comporta il riconoscimento del diritto degli attori-appellanti al risarcimento invocato“, non ha aveva poi riconosciuto e risarcito alcun danno ulteriore per la “lesione della libertà di autodeterminazione”, ma solo ritenuto che la condotta omissione informativa, in quanto integrante inadempimento contrattuale, aveva anch’essa concorso causalmente a produrre il danno alla salute.

I giudici del Palazzacio, poi, chiariscono altresì che la Corte territoriale aveva imputato ai sanitari la colpa per omissione informativa, non (solo) in relazione al rischio di mielopatia dorsale trasversa (che il ricorrente asseriva non essere al tempo conosciuta come complicanza della radioterapia), bensì, in generale, con riferimento ad una serie di altre circostanze rilevanti ai fini di una scelta consapevole della paziente: i medici, in buona sostanza, non avevano fornito alcuna informazione sulla “tipologia dei cicli terapeutici“, sui “possibili effetti iatrogeni all’epoca conosciuti“, sulla individuazione della “giusta dose“, sulla “illustrazione dei rischi e benefici” inerenti alle diverse opzioni.

La decisione adottata dalla Corte di merito, con riferimento al “contenuto oggettivo delle informazioni omesse – conclude la Cassazione -, è da ritenere, pertanto, corretta e rimane accertata la violazione del diritto alla autodeterminazione per inosservanza dell’obbligo informativo”.

La Cassazione si sofferma infine sulla contestazione dell’Istituto oncologico circa l’affermazione del Giudice di appello che aveva riconosciuto la rilevanza eziologica della omessa informazione, e dunque della violazione del diritto alla autodeterminazione, nella determinazione del danno alla salute, sostenendo che non era stata svolta alcuna indagine sulla scelta che la paziente avrebbe effettuato in ordine alla accettazione dei rischi connessi al trattamento terapeutico, se posta in condizione di conoscere tutte le informazioni rilevanti.

Ed è qui che la Suprema Corte ripercorre, ribadisce e chiarisce la elaborazione giurisprudenziale che la stessa Corte di legittimità ha svolto, nell’ultimo decennio, nella materia del consenso informato relativo alla somministrazione delle cure mediche e farmacologiche e della violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, arrivando alla formulazione di tutta una serie di enunciati.

 

I due tipi di danno: alla salute e all’autodeterminazione

La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – sul quale grava il relativo onere probatorio – se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti); un danno da lesione del diritto alla autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute”.

Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti a un’omessa od insufficiente informazione.

Omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale.

Omessa/insufficiente informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente.

Omessa informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto.

Omessa informazione in relazione a un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto”.

Infine, omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l’esistenza di test assai più attendibili, quali l’amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che, dall’omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente – salva possibilità di provata contestazione della controparte.

 

Quando il paziente deve fornire la prova del nesso causale tra inadempimento e danno

Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso consapevolmente prestato – recita la sentenza – dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c., e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.

Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; “il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”; il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all’”id quod plerumque accidit”.

Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, “non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile”.

Tanto premesso, però – conclude la Cassazione – il motivo di censura, “pure se astrattamente fondato, in quanto alcun accertamento è stato compiuto dalla Corte d’appello in ordine ad un presumibile rifiuto della (omissis) – ove correttamente informata dei rischi connessi al trattamento – a sottoporsi a ciclo di radioterapia ad elevato dosaggio, deve ritenersi, tuttavia, carente di interesse, ed è quindi inammissibile, in quanto il riconoscimento e la liquidazione del danno biologico trova in ogni caso fondamento eziologico nell’inesatta esecuzione della prestazione radioterapica, che integra autonoma “ratio decidendi” idonea a sostenere la condanna dell’Istituto al risarcimento del danno”.

Per la cronaca, anche gli altri motivi sono stati respinti e quindi il ricorso dell’Istituto rigettato.

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