Le condotte “omissive” nella responsabilità sanitaria

Ogni periodo storico è caratterizzato da una peculiare coscienza sociale che spinge il legislatore a regolare e risolvere aspetti di responsabilità che possono essere, di volta in volta, del tutto nuovi e, prima di allora, mai considerati e, come tali, mai affrontati.

L’epoca in cui viviamo, a partire dagli anni ’70, ha visto un’imponente produzione normativa legata alla responsabilità sanitaria determinata da una svariata casistica, che toccava tematiche sempre più sentite, appunto, dalla coscienza sociale che aveva alimentato una produzione giurisprudenziale sempre più intensa. In quest’ambito il rapporto medico-paziente è mutato notevolmente.

L’affermazione dei diritti del malato e alla salute

La realtà della medicina un tempo era impermeabile a critiche dal basso, per una sorta di ossequioso rispetto verso colui che tanto aveva studiato per curare e salvare vite, ma, in questo percorso, sempre più si è sentita l’esigenza di non lasciare il paziente in balìa dello scorrere degli eventi a prescindere e di tutelarlo da scelte fallaci e da professionisti – pur sempre “umani” – che non solo non sempre riuscivano a curarlo ma che a volte, anzi, arrecavano danni. E proprio nell’epoca in cui si sviluppavano le grandi e più recenti lotte “dal basso” erano maturi i tempi perché il medico smettesse di esercitare un potere di scelta insindacabile sul paziente e, a volte, non condiviso dallo stesso. Sempre più si sono delineati i diritti del malato (nel 1978 ad esempio nasce il Tribunale del Malato) e sempre più il medico viene percepito come responsabile (ovvero “garante”) della salute del suo paziente.

Anche una sempre maggiore coscienza della “utenza” del mondo sanitario ha richiesto che i medici gestissero il programma di cura in modo trasparente e responsabile. La responsabilità medica, quale paradigma della più generale responsabilità professionale, costituisce oggi il risvolto dell’attività sanitaria e si determina laddove, ad esempio, una prescrizione si riveli inadeguata e leda il diritto alla salute di un soggetto, diritto costituzionalmente garantito (art. 32).

 

La responsabilità medica

Tale locuzione di responsabilità medica ingloba tutte quelle azioni che causano, cioè, un danno alla salute psico-fisica del paziente. Questa responsabilità ha sempre costituito una tematica molto dibattuta in dottrina come in giurisprudenza. La delicatezza della materia è tale anche perché le vicende umane in ambito sanitario determinano una moltitudine di casi tra loro molto diversi e che non permettono sempre di sviluppare princìpi uniformi. La materia è stata oggetto di molteplici riforme legislative e mutevoli orientamenti giurisprudenziali. Con la Legge n. 24 del 8.03.2017 (la “Gelli-Bianco”), si è registrato un ulteriore, importante passaggio evolutivo: l’ultimo capitolo di una lunga storia che ha regolato il rapporto medico-paziente.

Accenniamo solo al fatto che la responsabilità sanitaria è stata classificata quale responsabilità contrattuale ed extra contrattuale a seconda della qualità del soggetto attivo (anche questi aspetti hanno oscillato molto seguendo l’evoluzione dei tempi), pur tuttavia influendo soprattutto su due aspetti tecnicamente importanti nella regolarizzazione delle controversie: il tempo di prescrizione del diritto della domanda di risarcimento e il soggetto a cui spetta l’onere della prova rispetto al danno. L’argomento è complesso ma, a prescindere da queste valutazioni prettamente tecniche in tema di giurisprudenza, è evidente che l’esigenza (di carattere anche sociale) era quella di rafforzare le tutele riconosciute al paziente.

Di fronte ad una casistica sempre più articolata, la Giurisprudenza ha dovuto cercare di dare risposte a tutte le possibili fattispecie che determinassero un danno e, così, ha dovuto regolare gli aspetti attraverso i quali poter verificare se in una certa attività medica fosse ravvisabile o meno una qualche responsabilità e, di conseguenza, il diritto a un risarcimento. Arriviamo ad uno degli aspetti più esemplificativi di quanto la Giurisprudenza oggi sia massivamente articolata nell’individuazione delle molte condotte colpose del medico curante.

 

Le omissioni: anche il “non fare” può risultare fatale al paziente

La responsabilità medica riguarda non solo i comportamenti attivi che abbiano comportato un danno alla salute del paziente ma, anche, le eventuali omissioni. Chi esercita un’attività sanitaria dovrà rispondere dei danni derivati dalla propria condotta anche quando questi siano la conseguenza di qualcosa che non è stato fatto. Questa specifica casistica negli ultimi anni ha fornito risposte sempre più puntuali a casi in cui è mancato un apporto di carattere sanitario che ha determinato il danno.

I casi di omissione si sono sempre più delineati con chiarezza, pur rimanendo una categoria “aperta”, ed è chiaro che il loro numero è in continua crescita. Si pensi al mancato accertamento diagnostico (ad es., il medico che non ordini l’esecuzione di esami e approfondimenti in presenza di una certa sintomatologia) o alla mancata somministrazione di farmaci di vario genere (la casistica riguarda svariate cure, per esempio antibiotiche, antitrombotiche ecc.), o alla mancata esecuzione di un’operazione chirurgica necessaria.

 

Il giudizio contrafattuale e il concetto di causalità

In tema di responsabilità medica per configurarsi una “omissione” è necessario un giudizio controfattuale per stabilire se ciò che non è stato fatto, cioè la cura omessa, avrebbe avuto un effetto salvifico. Tale giudizio dev’essere svolto secondo un’analisi di alta probabilità logica. Va, cioè, verificato il nesso causale (materiale) tra ciò che non è stato fatto e l’evento. Tutto ciò si connette con il più ampio concetto di causalità, che si suddivide in causalità “materiale”, la quale descrive la relazione tra la condotta e l’evento, e causalità “giuridica”, che riguarda il rapporto tra l’evento/inadempimento ed il danno.

La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza della Suprema Corte fin dalla nota pronuncia a SS.UU. n. 581 del 2008, proprio in tema di responsabilità medica, in cui era stato affermato che “esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria”.

I due momenti si trovano tra loro in stretta connessione logico-temporale poiché l’accertamento della causalità materiale costituisce la fondamentale premessa affinché possa ravvisarsi una responsabilità e da cui occorre prendere le mosse per procedere all’indagine sulla causalità giuridica al fine di determinare i danni risarcibili, e questo perché non vi è necessaria coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile. Si tratta di due giudizi distinti, l’uno attinente all’an debeatur, (cioè se un certo risarcimento sia dovuto) l’altro, successivo, relativo al quantum debeatur (al quanto sia dovuto) oggetto dell’obbligazione risarcitoria.

La norma di riferimento in tema di causalità giuridica è l’art. 1223 c.c. (a sua volta richiamata dall’art. 2056 c.c.), che prevede che sono risarcibili tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. La giurisprudenza di legittimità, con successivi interventi, ha via via ampliato la portata precettiva della norma, sancendo dapprima che vi sarebbero compresi anche i danni immediati e diretti che rientrino nella serie delle conseguenze normali e ordinarie dell’inadempimento medesimo in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di media diligenza e, successivamente, sancendo che, nonostante la norma faccia riferimento al solo danno patrimoniale nella sua duplice declinazione di danno emergente e lucro cessante, il medesimo schema della regolarità causale debba essere applicato anche al danno non patrimoniale.

Ecco che l’accertamento del nesso causale, nel sottosistema della responsabilità medica, diviene il campo elettivo e il banco di prova delle numerose teorie elaborate dalla Dottrina e dalla Giurisprudenza, specie alla luce della considerazione che esso, proprio quando riguarda fattispecie di tipo omissivo, è reso ancora più complesso. È l’ipotesi, ad esempio, dell’omessa o dell’errata diagnosi di una data patologia in ordine alla quale occorre verificare, ai fini della sussistenza della responsabilità del sanitario, se una tempestiva e corretta diagnosi avrebbe evitato l’evento dannoso.

 

L’omessa diagnosi

L’omessa diagnosi, infatti, non è da sola sufficiente a formulare un giudizio di responsabilità nei confronti del sanitario ma, individuata la sussistenza di un obbligo generico o specifico di tenere il comportamento omesso, si deve poter affermare che un’eventuale prognosi corretta avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace, secondo la logica del più probabile che non (seppur non coincidente con il criterio probabilistico rappresentato dal dato del “50+1”). L’indagine eziologica insomma implica un giudizio controfattuale di tipo ipotetico che si traduce nell’eliminazione mentale della condotta del responsabile: tale giudizio, nell’accertamento della causalità omissiva, è duplice in quanto occorre verificare se l’evento dannoso è ricollegabile all’omissione, ma anche se la condotta omessa, ma doverosa, avrebbe evitato il suo verificarsi.

La rilevanza sotto il profilo causale dell’errata diagnosi non viene meno neanche quando la condotta che si innesta non sia da sola idonea ad interrompere il nesso causale e costituisca un evento anomalo ed eccezionale rispetto al rischio e alla serie causale innescati dalla prima condotta.

L’obbligazione del professionista, qual è quella del medico, inoltre, appresenta una obbligazione non di risultato, ma di mezzi: perciò l’inadempimento del professionista non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal paziente.

 

Alcune sentenze esemplificativa della Cassazione

Significativo, in tal senso, un caso di omessa diagnosi di appendicite acuta da cui era comunque seguita la risoluzione della patologia mediante intervento chirurgico, ma all’esito del quale era insorto uno stato di coma con pericolo di vita.

Posto che sostituendo all’omessa diagnosi la corretta rilevazione della patologia sarebbe rimasto immutato, nella sequenza sopra indicata, il segmento causale successivo in quanto l’operazione aveva trovato il diretto antecedente causale nella malattia non altrimenti trattabile e il successivo stato di coma aveva costituito un evento del tutto anomalo ed eccezionale (la cui genesi eziologica era stata assorbita nell’efficienza deterministica esclusiva della condotta gravemente imperita dell’anestesista durante l’intervento), la Cassazione, in applicazione dei succitati princìpi, ha rigettato la richiesta di risarcimento dei danni affermando che: “In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana)”, Corte Cass., Sez. III., ord. n. 23197, del 27.112018.

In un altro caso di responsabilità medica, la S. C., applicando detti princìpi, ha cassato con rinvio la decisione di merito che, in una fattispecie di vaccinazione antipolio somministrata in epoca molto risalente nel tempo, aveva escluso la ragionevole probabilità scientifica dell’imputazione della poliomielite alla vaccinazione, in considerazione della bassa incidenza statistica, attestata dalla CTU, omettendo di valorizzare gli elementi presuntivi disponibili nel caso concreto, e con ciò accogliendo il ricorso dal paziente danneggiato (Cass. Civ., Sez. IV, n. 25119, del 24.10.2017).

 

L’onere probatorio

Quanto, poi, alla ripartizione dell’onere probatorio, in questi casi di omissioni sanitarie incombe sul paziente che agisce per ottenere il risarcimento del danno l’onere di provare con qualsiasi mezzo il nesso di causalità materiale tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’omissione dei medici mentre, ove il danneggiato abbia assolto tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto o mancato adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile e inevitabile con l’ordinaria diligenza. Con la conseguenza che, nel caso in cui al termine dell’istruttoria non risulti provato il nesso (materiale) tra condotta omissiva ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda va rigettata.

Si veda quanto stabilito in una pronuncia in cui la Cassazione aveva confermato la sentenza che aveva respinto per mancanza di nesso causale la domanda risarcitoria proposta dai genitori perché il figlio minore, nato prematuro, risultava affetto da una retinopatia all’occhio destro, in astratto e in alternativa riconducibile a tre fattori, di cui solo il terzo imputabile a responsabilità dei medici o della struttura, mentre gli altri erano preesistenti alla nascita e risultavano, ciascuno, più probabilmente che non, essere la causa della patologia (Cass. Civ. Sez. III, n. 26824 del 14.11.2017).

La responsabilità medica omissiva può arrivare a causare la morte del paziente e ciò anche quando la sua possibilità di sopravvivenza sia già compromessa o ridotta da pregressi o concomitanti fattori. Anche in questi casi, la Cassazione più recente ha creato una casistica regolamentando tali eventi e invitando ad effettuare il giudizio controfattuale per accertare quale possa essere stata la condotta doverosa omessa che, se eseguita, li avrebbe evitati.

In conclusione, la più recente produzione giurisprudenziale della Suprema Corte insegna che, in tema di responsabilità medica omissiva, è indispensabile individuare la condotta dovuta, accertare il momento di insorgenza della malattia e la sua evoluzione e poter comprendere se l’evento lesivo, quale esso sia e quanto grave sia, si sarebbe potuto evitare o differire facendo quanto si lamenta essere stato omesso.

Avv. Stefania Trivellato

Foro di Venezia

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