Tenuità del fatto e diritto al risarcimento per la vittima del reato

La questione è stata sollevata in un processo “militare”, ma il suo accoglimento da parte della Corte Costituzionale avrà una rilevante portata generale: la vittima di un reato deve poter essere risarcita anche quando il giudice applica nei confronti dell’imputato la causa di non punibilità per tenuità del fatto.

Più precisamente, la Consulta, con la sentenza n. 173/2022 depositata il 12 luglio 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 538 del Codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, decida sulla domanda risarcitoria. 

 

Militare ritenuto colpevole di diffamazione ma “assolto” per la tenuità del fatto

Come detto, il problema era stato posto dal tribunale militare di Roma (IN FOTO) nell’ambito di un giudizio penale che vedeva imputato un militare per il reato di diffamazione militare aggravata, commessa in danno di più persone. All’esito dell’istruttoria dibattimentale, il Pubblico ministero ne aveva chiesto la condanna alla pena di sei mesi di reclusione militare e le persone offese, costituite parti civili, ne avevano invocato la condanna al risarcimento del danno. 

Tuttavia, pur essendo stata provata sia la sussistenza del fatto di reato, sia la sua riferibilità all’imputato, in seguito al dibattimento era altresì emersa la particolare tenuità dell’offesa recata alle vittime: la contestazione riguardava un unico episodio, la condotta criminosa era stata posta in essere in un contesto informale e in presenza di poche persone e l’autore era incensurato. Tenendo quindi conto della pena edittale prevista per il delitto di diffamazione militare (non superiore nel massimo a cinque anni), della “non abitualità” del comportamento e alla non ricorrenza delle cause ostative previste dalla legge, secondo i giudici erano integrati tutti i presupposti di applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., con conseguente emissione di una sentenza assolutoria per essere l’imputato non punibile per la particolare tenuità del fatto. 

L’art. 131-bis del codice penale, aggiunto dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, recante “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67”, configura una causa generale di esclusione della punibilità il cui fondamento si correla al principio di offensività: la norma prevede che nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore, come detto, nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla suddetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

Ai fini della determinazione della pena detentiva non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale; in quest’ultimo caso, non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 cod. pen. (quinto comma). La causa di non punibilità si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante (sesto comma). 

 

Senza condanna la norma impediva al giudice di decidere sul risarcimento delle parti civili

Il problema a cui si è trovato di fronte il Tribunale militare capitolino è legato al fatto che l’art. 538, comma 1, cod. proc. pen. prevede che il giudice penale “decide” sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile, “quando pronuncia sentenza di condanna”. La condanna penale, dunque, costituisce il presupposto indispensabile del provvedimento del giudice penale sulla domanda civile: se emette sentenza di proscioglimento, tanto in rito (sentenza di non doversi procedere), quanto nel merito (sentenza di assoluzione), il giudice non deve provvedere sulla domanda civile; se invece emette sentenza di condanna, provvede altresì sulla domanda restitutoria o risarcitoria, accogliendola o rigettandola. 

Ne conseguiva dunque che nel caso specifico i giudici si trovavano nell’impossibilità di potersi esprimere circa le pur legittime richieste di risarcimento delle parti civili. Secondo il tribunale, la norma, nel precludere la pronuncia del giudice penale sulla domanda civile restitutoria o risarcitoria anche nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento emessa ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (ipotesi in cui, si ribadisce, contrariamente alle altre fattispecie di proscioglimento, sarebbe accertata sia la sussistenza del fatto, già qualificabile come illecito civile, sia la sua commissione da parte dell’imputato), avrebbe violato i parametri costituzionali, per un verso comprimendo i diritti costituzionali e convenzionali della vittima del reato, per altro verso ledendo il principio generale di ragionevolezza e quello più specifico di ragionevole durata del processo. 

 

Il Tribunale militare solleva dunque questioni di legittimità costituzionale sull’art. 538 c.p.p.

Con ordinanza del 27 aprile 2021, il Tribunale militare di Roma ha pertanto sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 538 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, “quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli artt. 74 e seguenti” dello stesso codice. 

Nell’esaminare il caso, la Consulta ha innanzitutto osservato preliminarmente che, sotto il profilo della rilevanza, sussisteva la piena ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, ritenute peraltro “rilevanti, atteso che, una volta emessa siffatta pronuncia assolutoria, per il disposto dell’art. 538 cod. proc. pen., resterebbe preclusa la possibilità di provvedere sulla domanda di risarcimento del danno proposta dalle parti civili costituite. Questa disposizione, infatti, consente al giudice penale di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile solo “quando pronuncia sentenza di condanna», mentre gli preclude di provvedere, al riguardo, se emette sentenza di proscioglimento. Tale preclusione, però, verrebbe meno se la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, riconoscendosi in tal guisa al giudice penale il potere di conoscere della domanda risarcitoria proposta dalle persone offese (costituite parti civili nel processo a quo), anche in mancanza del presupposto (altrimenti necessario) della previa pronuncia di condanna”. Nel merito, poi, secondo la Corte costituzionale le questioni sono fondate con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. 

La Consulta ripercorre tutte le varie tappe e le finalità della norma in oggetto fino ad arrivare alla legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) la quale prevede, al riguardo, “due criteri di delega: il primo, volto a dare rilievo al minimo edittale, in conformità alla sentenza di questa Corte n. 156 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., nella parte in cui non consentiva l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva; il secondo, volto a dare rilievo alla condotta dell’imputato susseguente al reato, ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa (art. 1, comma 21). Dunque, le ragioni fondanti dell’istituto hanno anche impresso ad esso una forza espansiva, nella prospettiva di un sempre maggiore contenimento della sanzione penale vera e propria secondo il criterio dell’extrema ratio, pur in un sistema che vede, come canone costituzionale, l’obbligatorietà dell’azione penale”. 

 

Quella per tenuità del fatto non è pronuncia tipicamente assolutoria, parti civili da tutelare

In simmetria con l’art. 131-bis cod. pen. si colloca poi l’art. 651-bis cod. proc. pen, prosegue la Corte, spiegando come il “legislatore delegato, per evitare il “pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno”, come prescriveva il criterio di delega, è intervenuto sulla disciplina sostanziale del giudicato penale introducendo, appunto, l’art. 651-bis cod. proc. pen. In passato, invece, per la simmetrica fattispecie dei reati di competenza del giudice di pace, quando il fatto è di “particolare tenuità”, altro legislatore delegato (art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000) ha presidiato la tutela della parte civile prevedendo che essa possa finanche opporsi, precludendo al giudice la possibilità di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale (sentenza n. 120 del 2019)”. In particolare, l’art. 651-bis cod. proc. pen. prevede, al primo comma, che “la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a  dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”.

Ora, l’esigenza che l’esimente fondata sulla particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento “fosse introdotta nell’ordinamento penalistico sostanziale senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno era contenuta espressamente nel criterio di delega in base al quale il legislatore delegato è stato “facoltizzato” a prevedere l’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. Il legislatore delegato, in attuazione anche di questo criterio, si è preoccupato di approntare una speciale tutela alla parte civile a fronte del beneficio per l’imputato, costituito dall’introdotta non punibilità per particolare tenuità del fatto”.

Infatti, essa accerta la commissione del reato ed ha piena efficacia nel processo civile 

Infatti, la Consulta rammenta anche che la relazione al Consiglio dei ministri del 12 marzo 2015, di accompagnamento al testo del decreto legislativo, poneva proprio in evidenza che “l’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto – accertata con sentenza passata in giudicato in esito ad un rituale processonon è una pronuncia tipicamente assolutoria, ma, al contrario, accerta, in via definitiva, che il reato è stato commesso dalla persona dichiarata non punibile. A questo accertamento penale, passato in giudicato in ordine all’entità del fatto illecito causativo del danno di cui si chiede (con l’azione civile) il risarcimento, deve attribuirsi efficacia nel processo civile, tenuto conto che l’imputato ha avuto ogni possibilità di difesa nel giudizio penale in cui la particolare tenuità del fatto è stata accertata (non con un decreto di archiviazione, ma con una sentenza dibattimentale passata in giudicato)”. 

In buona sostanza, punto sui cui la Consulta torna più volte, quella pronunciata alla base di questa norma è una sentenza di proscioglimento “che presenta una marcata peculiarità: la disciplina dell’efficacia di giudicato di tale pronuncia nel giudizio civile di danno sta non già nell’art. 652 cod. proc. pen. (che riguarda le sentenze di assoluzione), bensì nell’art. 651-bis dello stesso codice, ripetitivo della formulazione dell’art. 651 cod. proc. pen. (che concerne le sentenze di condanna). Al pari della sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento (art. 651 cod. proc. pen.), anche quella dibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile restitutorio o risarcitorio promosso nei confronti dell’imputato (condannato, nel primo caso; prosciolto nel secondo), nonché del responsabile civile che sia stato citato o sia intervenuto nel processo penale (art. 651-bis cod. proc. pen.). Il giudicato, in tal modo, è modellato su quello tipico delle sentenze di condanna e non già su quello delle sentenze di assoluzione”. 

Non a caso, evidenzia quindi la Corte, a differenza di ogni altra pronuncia di proscioglimento che accerti la sussistenza di una causa di non punibilità, “la sentenza di proscioglimento per non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. va iscritta nel casellario giudiziario, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera f), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti”. 

E il giudice anche in caso di proscioglimento per particolare tenuità può sospendere la patente

Non solo. La Consulta sottolinea anche come le Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 13681 del 2016) abbiano ritenuto in via interpretativa che, con la sentenza di proscioglimento per non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. per il reato di guida in stato di ebbrezza, “che il giudice possa non di meno applicare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, anche se l’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) richiede testualmente una sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, mentre in generale, con una sentenza di proscioglimento, il giudice non applica la sanzione amministrativa”.

La sentenza che dichiara la non punibilità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., pur integrando una decisione di proscioglimento, contiene, dunque, già l’accertamento, con efficacia di giudicato, delle circostanze che possono essere poste a fondamento di una pretesa risarcitoria. “Si ha, in sintesi – continua la Consulta – che la perdurante illiceità penale della condotta, anche quando il fatto è di lieve entità, risulta inequivocabilmente dall’art. 651-bis cod. proc. pen. La pronuncia di proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. si atteggia, pertanto, come una vera e propria sentenza di accertamento dell’illecito penale, che, in quanto avente efficacia di giudicato, può costituire presupposto di una domanda di risarcimento del danno nel successivo giudizio civile, rimanendo al giudice adito il compito della determinazione, di norma, del danno risarcibile, sempre che ne sussistano sussistano i presupposti nella specificità dell’illecito civile, avente comunque carattere di ontologica autonomia rispetto all’illecito penale. 

 

La Corte Costituzionale conviene quindi sul “deficit di tutela” per la parte civile

Ma è qui che la Corte costituzionale conviene sul fatto che questo parallelismo tra la regola dell’estinzione del reato per la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.) e quella dell’efficacia della relativa sentenza di proscioglimento nel giudizio civile o amministrativo di danno (art. 651-bis cod. proc. pen.) “disvela, però, un deficit di tutela per la parte civile, quando si viene a ragionare della prescrizione processuale dettata dalla disposizione censurata (art. 538 cod. proc. pen.), secondo cui il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta dalla parte civile (solo) quando pronuncia sentenza di condanna”. 

L’idoneità dell’istituto ad adempiere pienamente alla sua funzione riparativa senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno trova dunque “un limite nella impossibilità, derivante dalla norma suddetta, per il giudice penale di conoscere della domanda restitutoria o risarcitoria formulata dalla parte civile quando, con sentenza resa all’esito del dibattimento, dichiara la non punibilità dell’imputato per la particolare tenuità del fatto; impossibilità che discende dalla qualificazione formale della sentenza, la quale è pur sempre di proscioglimento per estinzione del reato, anche se in realtà ha un contenuto positivo di accertamento dei presupposti di tale reato

 

Irragionevole l’impossibilità di pronuncia sulla pretesa risarcitoria 

Una volta che nel processo si è accertato, con pronuncia idonea ad acquisire efficacia di giudicato (ex art. 651-bis cod. proc. pen.), che sussiste il fatto ascritto all’imputato e che egli lo ha commesso e, altresì, che tale fatto integra una fattispecie di illecito penale, sussistendo il relativo elemento soggettivo del dolo o della colpa, “risulta irragionevole l’impossibilità di una pronuncia sulla pretesa risarcitoria (o restitutoria) della parte civile, ad opera dello stesso giudice penale che contestualmente adotti una sentenza di proscioglimento dell’imputato per non punibilità ex art. 131- bis cod. pen” asserisce con forza la Consulta. 

E la mancanza di una pronuncia sulla pretesa risarcitoria o restitutoria della parte civile comporta “che quest’ultima debba promuovere ex novo un distinto giudizio civile in cui azionare la medesima pretesa, nonostante il giudicato che si forma già nella sede penale in senso favorevole alla possibile fondatezza della sua domanda (ai sensi dell’art. 651-bis cod. proc. pen.). Inoltre, la parte civile soffre anche il pregiudizio che, nell’immediato, le spese da essa sostenute nel processo penale restino a suo carico, non potendo il giudice penale porle a carico dell’imputato in mancanza di una formale soccombenza. 

La Corte Costituzionale, analizzando più nel dettaglio la regola posta dalla disposizione censurata (art. 538 cod. proc. pen.), secondo cui il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno “quando pronuncia sentenza di condanna” dell’imputato, soggetto debitore quanto alle obbligazioni civili, sostiene poi che essa non è però “assoluta, ma deflette in varie fattispecie in cui si giustifica, all’opposto, che possa esservi una decisione sui capi civili, vuoi dello stesso giudice penale, vuoi in prosecuzione dell’originario giudizio penale in cui è stata azionata, dalla parte civile, la domanda risarcitoria (o restitutoria)”. 

 

Le “eccezioni” già esistenti alla norma contestata

La prima e più vistosa eccezione citata dalla sentenza è quella dell’art. 578 cod. proc. pen., che, al comma 1, prescrive: “quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili“.

In queste due fattispecie “ci può essere, al contempo, la condanna al risarcimento del danno, nella misura in cui il giudice penale accerta che l’imputato ha commesso l’atto illecito e che la parte civile ha diritto al risarcimento del danno, e contestualmente il proscioglimento dall’accusa penale per prescrizione o amnistia, laddove dalle risultanze processuali, valutate dal giudice, non risulti che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (art. 129 cod. proc. pen.) osserva la Consulta: qui il “proscioglimento penale convive con la condanna civile da parte dello stesso giudice penale, senza che venga in sofferenza il canone della presunzione di innocenza di cui all’art. 6, paragrafo 2, CEDU e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE)”. 

Un’altra eccezione alla regola dell’art. 538 cod. proc. pen. è quella posta dall’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., “secondo cui la parte civile può proporre impugnazione, oltre che contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile, anche, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”. “Dopo la legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), che, mediante il suo art. 6, comma 1, lettera a), ha eliminato dal comma 1 dell’art. 576 cod. proc. pen. l’espressione “con il mezzo previsto per il pubblico ministero”, la giurisprudenza della Corte di cassazione (sezioni unite penali, sentenze 29 marzo-12 luglio 2007, n. 27614 e 28 marzo-3 luglio 2019, n. 28911) ha ritenuto che la parte civile possa impugnare la sentenza di proscioglimento, che reca anche il rigetto della domanda di risarcimento del danno, sì che il giudice dell’impugnazione (quale la corte d’appello) può riformare la pronuncia impugnata e – se non c’è impugnazione del pubblico ministero – accogliere solo la domanda di risarcimento del danno anche in presenza del proscioglimento dell’imputato dall’accusa penale. Pertanto, in questo caso, il processo penale si può concludere con un giudicato penale assolutorio e uno civile di condanna senza che siano in sofferenza il principio di eguaglianza e quello del giusto processo. 

Ebbene, la Consulta, con la sentenza n. 176 del 2019, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 cod. proc. pen., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., aveva già ritenuto che anche tale eccezione fosse compatibile con la regola dell’art. 538 cod. proc. pen.: “essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processualpenalistiche, è ragionevole che anche il giudizio d’appello sia devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito”. 

Sulla scia di queste eccezioni si colloca, poi, altresì, la previsione dell’art. 622 cod. proc. pen., secondo la quale, “fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile, ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile. Pure in questo caso il giudizio sui capi civili prosegue e la parte civile non deve promuovere un nuovo giudizio. Trovano applicazione le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e l’accertamento richiesto al giudice del “rinvio” ha ad oggetto gli elementi costitutivi dell’illecito civile, prescindendosi da ogni apprezzamento, sia pure incidentale, sulla responsabilità penale dell’imputato”. 

E un’ulteriore ipotesi di continuità tra accertamento penale e civile è disegnata dall’art. 578, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 2, comma 3, della recente legge n. 134 del 2021, che, “nel contesto della nuova disciplina della prescrizione dei reati, ha previsto (per i reati commessi a far data dal primo gennaio 2020) che “quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344- bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale». Sarà il giudice civile in grado d’appello, investito della «prosecuzione» del giudizio (non già di un “nuovo” giudizio), a confermare o riformare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile. In tutti questi casi è ben possibile che la pronuncia di accoglimento della domanda di risarcimento del danno non si accompagni a una pronuncia di condanna penale, per esserci stata, invece, una pronuncia di proscioglimento, o che vi sia, in prosecuzione dello stesso giudizio, una pronuncia in ordine alla pretesa restitutoria o risarcitoria della parte civile. 

 

Va “salvato” il procedimento (penale) in cui la parte civile ha promosso la pretesa risarcitoria

Insomma, la logica di fondo, che complessivamente emerge da queste fattispecie “è quella di evitare, finché possibile e compatibile con l’esito del giudizio in ordine all’azione penale, una situazione di absolutio ab instantia in riferimento alla domanda della parte civile e di salvare il procedimento in cui quest’ultima ha promosso la pretesa risarcitoria o restitutoria, senza che la stessa sia gravata dell’onere di promuovere un nuovo giudizio – tira le fila dei ragionamenti la Corte Costituzionale – Nelle fattispecie sopra esaminate, sia quelle che vedono lo stesso giudice penale pronunciarsi nel merito della pretesa civile risarcitoria (o restitutoria), pur senza che contestualmente emetta una condanna penale (ciò in deroga alla regola dell’art. 538 cod. proc. pen.), sia quelle connotate comunque dalla distinta prosecuzione del giudizio solo sui capi civili, c’è una risposta di giustizia alla domanda della parte civile, anche in mancanza dell’accertamento, da parte del giudice penale, con effetto di giudicato, quanto alla sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”.

La risposta di giustizia alla parte civile manca tuttavia nella situazione denunciata

Risposta di giustizia che invece, prende atto la Consulta, “manca proprio quando tale accertamento sussiste, ex art. 651-bis cod. proc. pen., allorché il giudice penale prosciolga l’imputato per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. In questo caso la regola generale, posta dall’art. 538 cod. proc. pen., non deflette, non consentendo al giudice penale di pronunciarsi anche sulla pretesa risarcitoria o restitutoria della parte civile. Ciò rende la norma censurata contrastante con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), per l’argomento a fortiori che può trarsi dalla comparazione con le fattispecie in cui non c’è l’absolutio ab instantia pur in mancanza di siffatto accertamento, vuoi perché il giudice penale è chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria (o restitutoria) civile anche se non vi è una condanna penale, vuoi perché il giudizio prosegue comunque per la definizione anche solo delle pretese civilistiche.

Essa inoltre si pone in violazione del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, secondo comma, Cost.), nella specie della parte civile, la quale subisce la mancata decisione in ordine alla sua pretesa risarcitoria (o restitutoria) anche quando essa appare fondata e meritevole di accoglimento proprio in ragione del contestuale accertamento, ad opera del giudice penale, della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e della riferibilità della condotta illecita all’imputato nel contesto del proscioglimento di quest’ultimo ex art. 131-bis cod. pen. Infine, collide con il canone della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) a causa dell’arresto del giudizio che ne deriva, quanto alla domanda risarcitoria (o restitutoria), con soluzione di continuità rispetto a un nuovo giudizio civile, del cui promovimento è onerata la parte civile, anche solo per recuperare le spese sostenute nel processo penale”. 

La disposizione censurata è stata pertanto dichiarata incostituzionale

La “reductio ad legitimitatem” della disposizione censurata, conclude la Consulta, richiede, dunque, di “riconoscere al giudice penale, come necessaria deroga alla regola posta dalla disposizione stessa, la possibilità di pronunciarsi anche sulla domanda di risarcimento del danno quando accerti che sussistono i presupposti per dichiarare la non punibilità dell’imputato in ragione della particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen”. La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 538 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis del codice penale, decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile, a norma degli artt. 74 e seguenti cod. proc. pen”. 

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