Il danno catastrofale va riconosciuto anche se la durata è breve

Il termine è molto forte ma in effetti definisce uno dei pregiudizi più terribili che possa capitare a una persona. Il danno cosiddetto catastrofale, o danno morale da lucida agonia, è quello subìto dalla vittima di un fatto illecito in ragione della sofferenza provata nell’avvertire consapevolmente l’ineluttabile approssimarsi della propria fine.

Un danno che va risarcito, a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo temporale intercorso tra le lesioni e il decesso, come ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11719/21 depositata il 5 maggio 2021, con la quale la Suprema Corte, dopo ben 25 anni, ha riconosciuto il relativo risarcimento ai familiari di un uomo deceduto nel 1996 dopo un grave incidente stradale nel quale aveva riportato svariate fratture e un trauma toracico-addominale che dopo alcune ore, trascorse in perfetto e disperato stato di coscienza, gli erano stati fatali.

 

Resta gravemente ferito in un incidente ma l’ospedale non ha un “ecografista” disponibile

La vittima, a seguito del sinistro, era stato trasportato in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale di Urbino (in foto), dove era giunto alle 8 di sera e gli erano stati riscontrati, come detto, un trauma toracico addominale, fratture multiple, shock emorragico traumatico, enfisema sottocutaneo e plurime ferite. Dopo l’immobilizzazione delle fratture erano stati effettuati alcuni prelievi, tra cui quello ematico, da cui era emersa la discesa di tutti i valori, facendo sorgere il sospetto di una probabile emorragia interna che aveva reso necessario un esame ecografico.

Non essendo tuttavia disponibile in quel momento un professionista in grado di effettuarlo e mancando un servizio di reperibilità notturna presso il reparto, alle 23 il paziente era stato quindi trasferito all’ospedale di Rimini, dov’era giunto alle 23.50 con diagnosi di shock ipovolemico in politraumatizzato e stato di agitazione. Dall’esame ecografico eseguito in urgenza era effettivamente emersa la presenza di un marcato versamento all’interno del cavo addominale che aveva reso indispensabile un intervento chirurgico in emergenza iniziato alle 01.40.

Ma nel corso dell’operazione, intorno alle due, si era purtroppo verificato un arresto cardiaco irreversibile, nonostante le manovre rianimatorie eseguite.

 

I familiari della vittima citano in causa l’azienda sanitaria

I suoi congiunti (in particolare la moglie, figlio e la madre) avevano quindi citato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Urbino, l’Azienda sanitaria unica regionale di Urbino e l’Azienda unità sanitaria locale di Rimini, chiedendo di condannarle al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del decesso del loro congiunto. Secondo i familiari, la morte era stata determinata da responsabilità delle due strutture ospedaliere coinvolte: di quella di Urbino, per non avere sottoposto il paziente ad esame ecografico che avrebbe consentito un tempestivo riscontro della lesione splenica e l’immediata effettuazione di un intervento di splenectomia che avrebbe dato buone probabilità di sopravvivenza, e di quella di Rimini, per la mancata, tempestiva esecuzione di un drenaggio toracico, nonostante la accertata ricorrenza di pneumotorace iperteso. Le Aziende sanitarie si erano a loro volta costituite respingendo ogni addebito.

Il Tribunale, con sentenza dell’8 agosto 2007, aveva tuttavia respinto le domande proposte nei confronti delle strutture. I consulenti tecnici d’ufficio avevano individuato la causa della morte nello stato di shock emorragico per la rottura della milza e in effetti avevano sottolineato la grave carenza amministrativa dell’ospedale di Urbino, che non aveva potuto eseguire l’esame ecografico, pur disponendo della strumentazione necessaria, per la mancanza di un medico reperibile in grado di provvedere. Ma la mancata previsione nella legislazione nazionale di uno standard di riferimento degli strumenti di cui una struttura sanitaria pubblica deve dotarsi, a parere del Tribunale, determinava, dovendo esaminare e decidere su scelte nelle quali interveniva la discrezionalità della pubblica amministrazione, la carenza di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.

I giudici aggiungevano poi che, poiché i Ctu non avevano ravvisato alcuna colpa nella condotta dei medici che avevano avuto in cura la vittima, non poteva neppure configurarsi la responsabilità dell’ente. In buona sostanza, il Tribunale concludeva che non poteva ritenersi provato che il decesso fosse derivato dalla mancata possibilità di esecuzione dell’esame ecografico e di un tempestivo intervento chirurgico di splenectomia.

 

La Corte d’appello non riconosce il danno catastrofale

I congiunti del paziente hanno dunque appellato la sentenza, ribadendo la riconducibilità causale del decesso del proprio caro alle omissioni addebitabili all’ospedale di Urbino, e insistendo per la richiesta di accertamento della responsabilità a titolo contrattuale o extracontrattuale in via diretta o indiretta della Zona territoriale n. 2 di Urbino o, in via subordinata, della perdita di chance di sopravvivenza e la condanna dell’Azienda sanitaria al risarcimento dei danni nella misura richiesta o in quella ritenuta di giudizio.

La Corte di Appello, con sentenza non definitiva n. 328/2016, in riforma della decisione di primo grado aveva dichiarato la responsabilità dell’allora Zona territoriale n. due di Urbino per la morte del paziente, condannandola, di conseguenza, al pagamento di 256mila euro a favore della moglie, di 250mila a favore del figlio, di 150mila per la mamma e di 35mila ciascuno a favore del nipote e della cognata. Inoltre, ed è il punto che qui interessa, i giudici territoriali avevano negato  la liquidazione del danno tanatologico, considerata la sopravvivenza in vita rispetto all’evento di danno della vittima troppo esigua, sole sette ore, e infine avevano rimesso la causa in istruttoria per la determinazione del danno patrimoniale per lucro cessante. Con sentenza definitiva n. 1962/2018, la Corte d’Appello di Ancona, infine, condannava la Zona Territoriale n. 2 di Urbino al risarcimento del danno da lucro cessante quantificato in euro 55.872,98 a favore della vedova e di euro 13.968,24 a favore del figlio, regolando quindi le prese di lite.

Il ricorso per Cassazione

Anche la sentenza di secondo grado, tuttavia, è stata oggetto di ricorso, da ambo le parti, ma quello che preme è il primo motivo di doglianza proposto dai familiari del paziente, con cui hanno denunciato il mancato riconoscimento da parte della Corte territoriale del danno terminale (o catastrofale) nonostante l’accertato periodo trascorso dal loro caro in lucida agonia (sette ore), ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché violazione degli artt. 1218, 2043 e 2059 cod. civ., per avere escluso la liquidazione del danno biologico trasmissibile agli eredi dato il brevissimo arco di tempo intercorso tra l’evento lesivo e la morte della vittima.

I ricorrenti asserivano che, essendo emerso il pieno stato di coscienza del loro familiare durante quelle sette ore, la Corte territoriale erroneamente non aveva riconosciuto il danno da morte, atteso che la vittima aveva patito indicibili sofferenze tanto sotto il profilo fisico quanto sotto quello morale e psichico per avere acquisito progressiva consapevolezza della propria morte imminente.

 

Il danno da lucida agonia prescinde dalla durata della sopravvivenza

Per la Cassazione, il motivo è fondato. “In caso di morte causata da un illecito – spiegano gli Ermellini -, il danno morale terminale deve essere tenuto distinto da quello biologico terminale”: il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico), infatti, “consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’integrità della sofferenza medesima”.

Il secondo invece, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, “è massimo nella sua entità e intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.

Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva chiaramente escluso la ricorrenza del danno biologico in ragione del breve lasso di tempo in cui la vittima era sopravvissuta all’evento di danno, “ma non ha preso in considerazione il danno da lucida agonia, la cui ricorrenza prescinde dalla durata della sopravvivenza in vita” proseguono i giudici del Palazzaccio, superando così le obiezioni della controparte secondo cui il lasso di tempo di sette ore era stato calcolato a partire dal momento dell’incidente che non poteva esserle imputato, mentre andava conteggiato piuttosto che dal momento in cui avrebbe dovuto essere eseguita l’ecografia.

Il danno da lucida agonia – prosegue la Cassazione – è legato unicamente alla consapevole attesa della morte imminente ed inevitabile da parte della vittima”. Una situazione comprovata in pieno per la vittima la quale era lucida al suo arrivo, alle 20, all’ospedale, e lo rimase, venendo peraltro descritta come “molto addolorata”, anche quando giunse all’ospedale di Rimini alle 23.50. Il suo stato era cambiato solo all’1.20 quando accusò una improvvisa perdita di coscienza accompagnata da arresto respiratorio.

 

L’unitarietà del danno non patrimoniale

È vero – prosegue la Suprema Corte – che dal ricorso non emerge se i ricorrenti avessero chiesto il risarcimento del solo danno biologico iure hereditatis, senza specificazione quanto al profilo “soggettivo” consistente nella consapevole percezione della morte imminente. Tuttavia, la sentenza delle Sezioni unite n. 15350/2015, conferma l’unitarietà del danno non patrimoniale anche in riferimento al profilo in esame, nel senso che questo tipo di danno non patrimoniale può essere ricondotto tanto all’aspetto biologico in senso stretto – nel settore psichico – quanto alla correlata sofferenza d’animo, giacché l’unica distinzione evincibile dagli orientamenti giurisprudenziali concerne la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno risarcibile, nel senso che un orientamento, con mera sintesi descrittiva, lo indica come danno biologico terminale, mentre un altro come danno catastrofale, con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni.

Quando intervennero le Sezioni Unite, alcune sentenze di sezioni semplici avevano attribuito al danno catastrofale natura di danno morale soggettivo, e altre natura di danno biologico psichico. Ai fini della ricorrenza di tale voce di danno, che è pur sempre un danno conseguenza, è necessario provvedere alla dimostrazione dell’an, che presuppone la prova della “coerente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine” nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dovendosi escludere che su di esso incida la breve durata della lucida consapevolezza dell’approssimarsi della propria morte.

Nel caso in esame, la lucidità della vittima si era manifestata inequivocabilmente: anche a prescindere, quindi, dal fatto che la sopravvivenza sia stato molto breve. “La Corte territoriale, pertanto – conclude la Cassazione  ha realmente errato nell’escludere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dall’agonia da (omissis) come diritto insorto in capo a quest’ultimo quando era lucido e consapevole e trasmesso iure hereditatis”.

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