Danno morale anche se il fatto non lede l’integrità psicofisica

Va riconosciuto il risarcimento anche a colui che, pur non essendo “tecnicamente” persona offesa dal reato, ha comunque subito un danno derivante dall’ingiusta condotta. Quello che rileva, infatti, è che chi avanza la domanda risarcitoria sia un “soggetto danneggiato”.

E’ una sentenza molto rilevante, e che fa chiarezza su una questione interpretata ancora in modo difforme da alcuni tribunali di merito, quella, la n. 14453/21, depositata dalla Cassazione, sesta sezione civile, il 26 maggio 2021.

 

Negato risarcimento del danno morale perché il danneggiato non è anche “persona offesa”

Il pronunciamento trae origine da un censurabile caso – di fatto – di mala sanità successo ben 23 anni fa in Emilia Romagna. Un paziente aveva citato in giudizio avanti il Tribunale di Reggio Emilia un dottore chiedendone la condanna al risarcimento del danno morale sofferto per il rifiuto che questi, contattato quale guardia medica in servizio nella notte fra il 20 ed il 21 gennaio 1998, aveva opposto alla sua richiesta di visita domiciliare nonostante i riferiti sintomi di un malore che, successivamente, al Pronto Soccorso, risultò essere un infarto al miocardio, risoltosi fortunatamente bene. Il tribunale aveva accolto la domanda condannando il medico al pagamento della somma di 20mila euro, equitativamente liquidata a titolo di risarcimento del danno morale.

In accoglimento del gravame interposto dal sanitario e in riforma della decisione di prime cure, tuttavia, la Corte d’appello di Bologna con sentenza del 2018 aveva invece rigettato la domanda risarcitoria, condannando il paziente anche alla refusione delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.

La Corte territoriale aveva ritenuto che la condotta omissiva della guardia medica, pur integrando i presupposti del reato di rifiuto di atti d’ufficio, non avesse leso l’integrità psicofisica del paziente e non fosse pertanto “idonea a costituire fatto illecito in senso civilistico”. E aveva aggiunto che “l’oggetto giuridico tutelato è soltanto il normale e tempestivo funzionamento della pubblica amministrazione nelle sue varie declinazioni pratiche, tra le quali la sanità, e non anche il diverso bene giuridico rappresentato dall’integrità psicofisica della persona”, e che quindi “il malato non è la persona offesa dal rifiuto del medico di compiere la dovuta visita domiciliare”.

Ne discendeva, secondo i giudici d’appello, l’impossibilità di configurare un danno non patrimoniale causalmente ascrivibile alla condotta del dottore nell’accezione del danno morale”.

Il paziente a quel punto ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando innanzitutto il fatto che la Corte d’appello non avesse tenuto conto della distinzione tra soggetto passivo del reato (inteso come titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice) e persona danneggiata dal reato stesso (come tale pacificamente ritenuto legittimato a costituirsi parte civile) e avesse, pertanto, erroneamente escluso dal novero degli aventi diritto al risarcimento il danneggiato dal reato che non fosse anche tecnicamente qualificabile come “persona offesa” dallo stesso.

Il ricorrente ha rilevato che l’art. 185 del codice penale (implicitamente richiamato dall’art. 2059 cod. civ. in tema di danni non patrimoniali) non giustificava un’interpretazione riduttiva e imponeva di dare tutela a chiunque (persona offesa o no) avesse subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto del reato.

Secondo la Suprema corte il motivo è fondato. I giudici del Palazzaccio ripercorrono le due concorrenti considerazioni sulla base della quali la Corte territoriale aveva escluso, a priori e in astratto, il diritto del paziente di ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale: il fatto-reato non aveva leso la sua integrità psicofisica e non era pertanto idoneo a costituire fatto illecito in senso civilistico; il malato non è, tecnicamente, “persona offesa” dal reato.

 

La distinzione tra persona offesa e soggetto danneggiato

Ebbene, per la Suprema Corte la giustificazione resa in tali termini non è conforme a diritto e come tale non può essere avallata. “Occorre muovere dal secondo rilievo – scrivono i giudici del Palazzazzio – il quale sembra implicare l’assunto che unico soggetto al quale possa riconoscersi il diritto di essere risarcito ai sensi dell’art. 185 cod. pen. sia la persona offesa dal reato (tecnicamente intesa come soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice) la quale abbia sofferto un danno in conseguenza dello stesso, con esclusione dunque di altri possibili danneggiati diversi dalla persona offesa.

Nel caso di specie soggetto danneggiabile e risarcibile dal reato la cui configurabilità è stata in concreto accertata (rifiuto di atti d’ufficio: art. 328, comma primo, cod. pen.) sarebbe dunque da considerare, in tale prospettiva, solo la pubblica amministrazione nelle sue varie declinazioni pratiche, tra le quali la sanità, il cui normale e tempestivo funzionamento la norma intende tutelare, e non il soggetto privato che da quella condotta costituente reato abbia subito conseguenze dannose, Ma tale assunto è errato in diritto”.

La Suprema Corte spiega infatti che va distinta la persona offesa dal reato dal soggetto danneggiato dallo stesso: la prima è, “esclusivamente, il soggetto titolare del bene giuridico protetto, o dell’interesse tutelato (art. 90 c.p.p.)”. E nell’ipotesi di cui all’art. 328 c.p. il bene giuridico tutelato è “esclusivamente il buon andamento della pubblica amministrazione e, segnatamente, il suo regolare funzionamento nella fase di realizzazione dei suoi compiti istituzionali, per cui la persona offesa è esclusivamente la Pubblica Amministrazione”

Il soggetto danneggiato dal reato, invece, è “ogni soggetto che dal reato nel caso concreto abbia subito un danno. Ne consegue che l’individuazione della persona offesa non esaurisce l’individuazione di ogni possibile danneggiato civile dal reato, dovendo quest’ultimo essere accertato con riferimento al caso concreto. Né vi è ragione logica o giuridica per limitare l’area dei danni risarcibili a tale ultima figura – ossia al danneggiato che non sia anche persona offesa dal reato – ai soli danni patrimoniali, con esclusione di quelli non patrimoniali”.

 

Il malato danneggiato, anche se non persona offesa, può ben chiedere il danno morale

Tale limitazione infatti non è giustificata in particolare dall’art. 185, comma secondo, cod. pen. che, nel prevedere che “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui”, lungi dal delimitare il novero dei soggetti danneggiati risarcibili, “postula solo l’esistenza di un nesso causale tra il reato e il danno, patrimoniale o non patrimoniale che sia”. Inoltre, la Suprema Corte cita l’art. 74 cod. proc. pen. che espressamente riconosce ad ogni “soggetto al quale il reato ha recato danno (dunque non solo alla persona offesa), il diritto di esercitare l’azione civile nel processo penale (attraverso la costituzione di parte civile) per le restituzioni e per il risarcimento del danno dì cui all’articolo 185 del codice penale”, e “danno di cui all’art. 185 cod. pen. anche quello non patrimoniale”.

Ne deriva che il rilievo svolto in sentenza secondo cui il malato non è persona offesa dal reato di cui all’art. 328, comma primo, cod. pen.  è in sé tecnicamente corretto, “ma è privo di implicazioni pratiche ai fini della soluzione della questione posta – sottolinea la Cassazione -, dal momento che il fatto che non sia persona offesa non esclude comunque che colui che è stato danneggiato dal reato possa richiedere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali”.

Quanto alla seconda affermazione della Corte territoriale, e cioè che nello specifico il “fatto-reato” non aveva leso l’integrità psicofisica del paziente e, come tale, non era idoneo a costituire “fatto illecito in senso civilistico”, gli Ermellini citano i noti principi fissati dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 11/11/2008, nn. 26972-5, circa le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali.

 

Quando è risarcibile il danno non patrimoniale

“Il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato: in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale”.

Ancora, “quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di un’ipotesi di reato”, ad esempio nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale: in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale “scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento”, quali, nei casi suindicati, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni.

Infine, “quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale: in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice”.

 

Nello specifico è stato leso un interesse della persona tutelato dall’ordinamento (sanitario)

Nello specifico, la risarcibilità del danno non patrimoniale va ricondotta senza dubbio alla prima delle tre ipotesi sopra indicate (danno derivante da fatto illecito astrattamente configurabile come reato), “con la conseguenza che la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale”.

In conclusione, come ribadisce la Cassazione, si rivela pertanto insufficiente a giustificare il diniego della risarcibilità del danno non patrimoniale da fatto-reato la sola constatazione che esso non abbia leso l’integrità psicofisica del danneggiato, “occorrendo anche valutare se comunque esso abbia leso interessi della persona tutelati dall’ordinamento diversi da quello all’integrità psico-fisica, ancorché privi di rilevanza costituzionale, quale ben può essere quello al corretto adempimento dei compiti istituzionali affidati al funzionario pubblico ove posti a diretto servizio dell’utenza“.

Ovviamente, resta fermo che anche in tale caso l’evento di danno (ossia la lesione dell’interesse della persona) deve essere correlabile, secondo nesso di causalità materiale, al fatto illecito: il danno non patrimoniale infatti “non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento (danno-evento) ma con le conseguenze di tale lesione (danno-conseguenza), sicché la sussistenza di siffatte conseguenze pregiudizievoli e il loro collegamento all’evento dannoso (secondo nesso di c.d. causalità giuridica: artt. 1223 e 2056 cod. civ.) devono comunque essere oggetto dì allegazione e prova, sebbene naturalmente questa possa essere data anche attraverso presunzioni”.

Non essendo tuttavia questa (ossia la mancanza di allegazione e prova del danno-conseguenza) la giustificazione spesa nel pronunciamento impugnato per il rigetto della domanda risarcitoria, ma la tanto aprioristica, “quanto erronea in diritto”, esclusione della risarcibilità in astratto del danno dedotto, la sentenza è stata quindi cassata con rinvio della causa alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione.

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