Il requisito dell’interesse/vantaggio nell’infortunio sul lavoro

Com’è noto, nel caso di infortuni sul lavoro il Dlgs 231/2001 prevede la responsabilità, e quindi la perseguibilità, anche dell’impresa in quanto soggetto giuridico, ma quando anche l’Ente va condannato unitamente al datore di lavoro?

Fondamentale, al riguardo, la sentenza n. 22256/2021 depositata l’8 giugno 2021 con la quale la Cassazione ha apportato decisivi chiarimenti al riguardo stabilendo, in estrema sintesi, che l’azienda o la società non è responsabile per l’incidente subìto dal lavoratore, se la violazione delle norme anti infortunistiche è il risultato di una sottovalutazione del rischio ma senza l’intenzione di risparmiare sui costi, massimizzando i profitti.

 

Datore di lavoro e impresa condannati per un grave infortunio occorso a un operaio

La vicenda. Con sentenza del 19 novembre 2019, la Corte d’appello di Firenze aveva confermato la decisione di primo grado con la quale un datore di lavoro era stato dichiarato colpevole del reato di lesioni colpose, aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, e condannato alla pena di 500 euro di multa, e la sua impresa era stata riconosciuta responsabile dell’illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a) e 25-septies, comma 3, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e a sua volta condannata al pagamento della sanzione amministrativa di 12.900 euro.

Il processo riguardava un infortunio sul lavoro occorso in un impianto di selezione di rifiuti di quest’azienda, di cui l’imputato era amministratore delegato, a un autista dipendente di un’altra società, il quale, sceso dal mezzo, mentre stava rimuovendo il telo del cassone al fine di consentire Io scarico del materiale proveniente dalla raccolta differenziata, era stato urtato dal muletto condotto da un dipendente della società che gestiva l’impianto, riportando lesioni gravi, in particolare la frattura della tibia e del piede sinistro.

La responsabilità del datore di lavoro era stata riconosciuta in quanto i traumi erano stati ritenuti conseguenti alla violazione del combinato disposto di cui agli artt. 63 e 64, comma 1, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, per non avere l’Ad organizzato i luoghi di lavoro in maniera conforme all’allegato IV, punto 1.4., ed in particolare per non avere predisposto una viabilità sicura regolamentando, con cartellonistica e segnaletica orizzontale, la circolazione nel piazzale esterno dell’impianto di selezione rifiuti, separando le corsie di marcia, indicando i luoghi di stoccaggio e le corsie destinate ai carrelli elevatori e ai pedoni, nonché le aree di manovra dei mezzi.

Contro la sentenza della Corte territoriale hanno proposto ricorso per Cassazione sia l’amministratore sia l’azienda. La Suprema Corte ha rigettato il primo, ma ha invece ritenuto fondato il secondo, che è quello che qui interessa.

Il difensore dell’azienda censurava il pronunciamento impugnato nella parte in cui aveva ritenuto che la condotta omissiva addebitata al datore di lavoro fosse stata posta in essere nell’interesse e/o a vantaggio della società, lamentando il fatto che i giudici non avrebbero indicato in cosa cosa fosse consistita la mancata realizzazione di segnaletica orizzontale segnalata dalla Asl (cioè nella mancanza di una striscia rossa con funzione di guida per il muletto) e non avrebbero approfondito la generale organizzazione dell’azienda in materia di sicurezza del lavoro, né il fatto che la società aveva adottato il Duvri, il Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza, prevedendo il rischio di investimento nonché le misure per prevenirlo: tutti dati che avrebbero consentito di escludere l’interesse e il vantaggio per l’ente derivante dalla mancata adozione di tale cautela. La mancanza previsione nel Duvri e la mancata realizzazione di una semplice striscia rossa orizzontale non potevano infatti aver comportato né un risparmio di spesa – i costi per tratteggiarla sarebbero stati irrisori – né un vantaggio in termini di miglioramento della produttività dell’azienda.

 

I concetti di interesse e vantaggio

In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, ricorda la Cassazione, costituiscono principi pacifici nella giurisprudenza della Suprema Corte quelli secondo cui: “i concetti di interesse e vantaggio, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’evento; tali criteri di imputazione oggettiva sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito; ricorre il requisito dell’interesse qualora l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto o della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso”.

La Corte ricorda anche che, sempre in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, “il risparmio in favore dell’impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall’interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione”.

Ancora, “ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, abbia consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica”: ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi di impresa. Ossia, “pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione)”.

Ricorre, poi, il requisito del vantaggio “quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni de/lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, e, dunque ha realizzato una politica di impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, consentendo una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto”.

 

I criteri oggettivi e soggettivi, la consapevolezza e la condotta

I giudici del Palazzaccio precisano anche che “l’interesse è un criterio soggettivo, il quale rappresenta l’intento del reo di arrecare un beneficio all’ente mediante la commissione del reato. Per questo, esso è indagabile solamente ex ante ed è del tutto irrilevante che si sia o meno realizzato il profitto sperato”. Pertanto, nei reati colposi d’evento, affinché sussista l’interesse per l’ente, “sarà certamente necessaria la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto è proprio da tale violazione che la persona fisica ritiene di poter trarre un beneficio economico per l’ente (vale a dire un risparmio di spesa)”.

Diverso invece il discorso per  il “vantaggio” che è un criterio oggettivo, “legato all’effettiva realizzazione di un profitto in capo all’ente quale conseguenza della commissione del reato. Per questo esso deve essere analizzato, a differenza dell’interesse, ex post”.

Inoltre, nei reati colposi, aggiunge la Suprema Corte, si dovrà guardare solamente al vantaggio “ottenuto tramite la condotta”. Condotta che, nei reati colposi d’evento contro la vita e l’incolumità personale commessi sul lavoro, “è rappresentata dalla violazione delle regole cautelari antinfortunistiche, ed è dunque in riferimento ad essa che bisognerà indagare se, ex post, l’ente abbia ottenuto un vantaggio di carattere economico.

Qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l’ente. In tale schema, marcatamente obiettivo, non è necessario che il reo abbia volontariamente violato le regole cautelari al fine di risparmiare, in quanto la mancanza di tale volontà rappresenta la sostanziale differenza rispetto all’interesse, ma solamente che risulti integrata la violazione delle regole cautelari contestate. In questo modo, il vantaggio viene rapportato alle specifiche contestazioni mosse alla persona fisica, salvaguardandosi il principio di colpevolezza, ma allo stesso tempo permettendo che venga attinto da sanzione penale anche il soggetto che, in concreto ed obiettivamente, si è giovato della violazione cautelare, vale a dire l’ente“.

 

Il vantaggio non deve essere irrisorio

La Cassazione si sofferma anche sulla consistenza del vantaggio, che deve certamente consistere in un “importo non irrisorio”, e sull’aspetto della sistematicità delle violazioni, specificando che l’imputazione della società è ravvisabile anche “in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un’iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l’interesse dell’ente”.

Fatte queste premesse, la Suprema Corte, “onde impedire un’applicazione automatica della norma che ne dilati a dismisura l’ambito di operatività ad ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione (che implica quasi sempre un risparmio di spesa il quale può, però, non essere rilevante)”, stabilisce che, laddove il giudice di merito accerti l’esiguità del risparmio di spesa derivante dall’omissione delle cautele dovute, “in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro (e in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare tali cautele, abbia agito proprio allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica), ai fini del riconoscimento del requisito del vantaggio occorre la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela della salute dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse”: la prova, cioè, dell’effettivo, apprezzabile (cioè non irrisorio) vantaggio, consistente nel risparmio di spesa o massimizzazione della produzione, che può derivare, anche, dall’omissione di una singola cautela e anche dalla conseguente mera riduzione dei tempi di lavorazione, “non desumibile, sic et simpliciter, dall’omessa adozione della misura di prevenzione dovuta”.

In altri parole, laddove non vi sia la prova, “desumibile anche dalla sistematica sottovalutazione dei rischi”, che l’omessa adozione delle cautele sia il frutto “di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi di impresa, (cioè di una specifica politica aziendale volta alla massimazione del profitto con un contenimento dei costi in materia di sicurezza, a scapito della tutela della vita e salute dei lavoratori)”, e risulti, invece, “l’occasionalità della violazione delle norme antinfortunistiche, dovendosi escludere il requisito dell’interesse”, va “rigorosamente provato quello del vantaggio, che può alternativamente consistere in un apprezzabile risparmio di spesa o in un, sempre apprezzabile, aumento della produttività, e la motivazione della sentenza che riconosca tale vantaggio deve dare adeguatamente conto delle prove, anche per presunzioni, dalle quali lo ha desunto”.

Nel caso si specie, la motivazione della sentenza impugnata secondo i giudici del Palazzaccio risulta carente proprio sotto questo profilo, “non dando conto delle prove dalle quali ha desunto il vantaggio conseguito dall’ente, in termini di apprezzabile risparmio di spesa e di apprezzabile accelerazione del processo produttivo, nonostante le specifiche censure mosse sul punto con l’atto d’appello, avverso la sentenza di primo grado”, che aveva riconosciuto la sussistenza del requisito della commissione del reato “nell’interesse o comunque a vantaggio dell’ente” ritenendo che l’omessa predisposizione delle misure di prevenzione avesse consentito sia un risparmio di spesa, ravvisato però non nel solo ed esiguo costo della vernice necessaria per l’apposizione della segnaletica orizzontale, e nella spesa per la consulenza necessaria a colmare la carenza del modello organizzativo, “in modo tale che questo sia funzionale rispetto allo specifico processo produttivo

Di qui l’annullamento con rinvio per procedere a nuovo esame in ordine alla sussistenza del criterio di imputazione di cui all’art. 5 d.lgs n. 231 del 2001, nel quale il giudice del rinvio dovrà riesaminare la sussistenza del requisito dell’interesse e/o del vantaggio necessario per l’affermazione della responsabilità dell’ente per il reato commesso dal datore di lavoro, alla luce delle specifiche censure mosse con l’atto d’appello e dei principi affermati dalla Suprema Corte.

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