La struttura sanitaria deve rispondere per il ritardo nella prestazione

In tema di responsabilità medica, vista la natura contrattuale del rapporto che intercorre tra la struttura sanitaria e il paziente, costituisce inadempimento della prestazione il ritardo con cui questa viene fornita e pertanto l’ospedale o la clinica in questione ne deve rispondere.

A riaffermare con forza questo principio a tutela dei cittadini la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16936/21 depositata il 15 giugno 2021.

 

Un paziente deve ricorrere alla clinica privata per un intervento urgente differito in ospedale

Il caso di malpractice medica di cui si sono occupati gli Ermellini risale al 3 settembre 2004 quando un uomo, alle 14.30 di quel giorno, venne ricoverato d’urgenza all’ospedale San Giovanni di Roma (in foto), in stato di coma, per un sospetto ematoma subdurale. Pur constatata la gravità delle sue condizioni, e pur essendo stato il paziente già trasferito in sala operatoria, pronto per l’operazione, l’intervento chirurgico tuttavia venne ritardato per via della sopravvenienza di un caso ritenuto più grave.

I familiari, però, ritenendo ingiustificato questo differimento, per impedire l’aggravarsi della situazione, decisero di trasferire il loro congiunto in una clinica privata, la Mater Dei, dove l’intervento venne eseguito con successo, ma costò loro quasi ventimila euro, precisamente 18.496.

 

La causa per ottenere il rimborso degli ingenti costi dell’operazione

Il paziente chiese dunque il rimborso di tale somma alla Regione Lazio, che tuttavia ritenne ingiustificata la richiesta, costringendolo a far ricorso al Tribunale di Roma, il quale a sua volta rigetto la domanda sul presupposto che non vi fosse stato alcun inadempimento. La decisione venne però riformata dalla Corte di Appello capitolina, la quale, con sentenza del 2018, ritenne invece che la prestazione fosse urgente e che averla differita avesse costituito inadempimento, con conseguente danno consistito nella necessità della spesa successiva effettuata presso l’istituto di cura privato.

A questo punto è stata l’azienda ospedaliera a proporre ricorso per cassazione, adducendo tre motivi di doglianza. Con il primo, la struttura parte dal presupposto che il rapporto intercorso con il paziente è consistito in un contratto che la prassi ormai denomina di “spedalità”, ossia un contratto in cui, accanto alla prestazione principale, la cura del paziente, la struttura è tenuta ad obbligazioni secondarie, come la messa a disposizione di strumenti, di personale, ed altro.

 

Per la struttura l’intervento non era urgente

Ciò premesso, la ricorrente sostiene che, trattandosi di una responsabilità contrattuale quella che le viene imputata, avrebbe dovuto essere dimostrato il suo inadempimento, che la Corte territoriale avrebbe invece ritenuto erroneamente sussistente, non avendo considerato che l’intervento non sarebbe stato urgentissimo e che il suo differimento sarebbe stato dunque lecito in ragione del sopraggiungere di casi più gravi. Anzi, secondo l’ospedale sarebbe stata la condotta del paziente (o per meglio dire dei suoi familiari) ad aver violato il dovere di buona fede e correttezza, che impone alla controparte di cooperare nell’adempimento, che sarebbe stato violato proprio dalla decisione di portare via il malato e così da impedire la prestazione di cura.

Collegandosi a quest’ultima affermazione, con il secondo motivo la struttura obietta che sarebbe stata appunto la decisione, assunta dai congiunti, di trasferire il malato in altra struttura, a determinare l’impossibilità della prestazione, che era ancora utilmente effettuabile, e in questo modo, pur non determinando la risoluzione del contratto, avrebbe però fatto salvo il diritto alla controprestazione, ossia il diritto dell’Azienda al pagamento del corrispettivo.

Contestata anche l’attribuzione dell’onere della prova

Con il terzo motivo, infine, l’Azienda ospedaliera sostiene che sarebbe stato onere del paziente di provare la fonte contrattuale dell’obbligazione e l’inadempimento, in primo luogo, e solo dopo che fosse stata fornita tale prova, sarebbe stato onere dell’Azienda liberarsene dimostrando la non imputabilità: regola, questa, che sarebbe stata disattesa dai giudici di secondo grado nel momento in cui essi avevano ritenuto che, provato l’inadempimento, non era stata fornita prova alcuna della estraneità di esso alla sfera del debitore della prestazione.

Per la Suprema Corte, tuttavia, tutti e tre i motivi sono infondati. Anzitutto, osserva la Cassazione, è la stessa Azienda a ritenere che il rapporto con il paziente è, nel caso di specie, di natura contrattuale: “il che significa – chiariscono gli Ermellini – che l’onere della prova della natura della responsabilità, o meglio della fonte di tale responsabilità, è stato assolto dal paziente; o perlomeno che era pacifico che la fonte del rapporto stava in un contratto e che dunque la responsabilità attribuita alla Azienda era di tipo contrattuale, con conseguente riflesso sull’onere della prova”.

 

Nella responsabilità contrattuale spetta all’Azienda fornire la prova liberatoria

Senza considerare il fatto, aggiungono i giudici del Palazzaccio, che la corte di merito non aveva affatto disatteso il significato dell’articolo 2697 c.c., in quanto, “data per ammessa la natura contrattuale del rapporto, ed accertato l’inadempimento, che la corte ha ritenuto provato dal paziente – in quanto ha reputato che l’intervento era urgente, se non per salvare la vita, per evitare danni irreparabili -, ha conseguentemente e correttamente ritenuto che gravasse sull’Azienda la prova liberatoria, ossia la prova che il ritardo della prestazione non fosse imputabile, conformemente alla regola probatoria in tema di responsabilità contrattuale”.

Un volta precisato, dunque, che l’onere della prova era stato correttamente ripartito, “è infondato il primo motivo, o meglio inammissibile, in quanto mira a contestare l’accertamento in fatto circa l’inadempimento della prestazione – prosegue l’ordinanza – La Corte ha, con motivazione adeguata, ritenuto che l’intervento fosse urgente e che il suo differimento fosse ingiustificato, ossia che l’Azienda non ha dimostrato che era inevitabile differirlo: questo accertamento in fatto non può essere qui messo in discussione, essendo peraltro adeguatamente motivato dalla corte di merito, che indica le circostanze fattuali ed anche documentali (cartella clinica ed altro) da cui ha ricavato questa convinzione”.

 

L’accertamento del ritardo ingiustificato dell’intervento fa decadere anche gli altri motivi

Un volta accertato il “ritardo ingiustificato nell’intervento”, viene automaticamente meno anche il secondo motivo del ricorso, connesso con un argomento di censura contenuto nel primo, ossia la responsabilità addebitabile al paziente nella mancata esecuzione della prestazione. La lettura secondo la quale la controparte non avrebbe cooperato al fine di consentire l’adempimento della prestazione, letta come causa di una impossibilità sopravvenuta di quella stessa prestazione, resa cioè impossibile proprio dal trasferimento del paziente, causa imputabile ai suoi congiunti, decade, infatti, automaticamente “se cade anche la premessa, ossia che l’adempimento fosse ancora possibile, e non vi fosse cioè ritardo”.

Rifacendosi alla ricostruzione in fatto operata dalla Corte di merito, secondo cui, invece, il ritardo era ingiustificato, non avendo l’Azienda dimostrato che non aveva modo di intervenire sul paziente a causa delle sopravvenienze più gravi, “ne deriva che la condotta dei familiari del paziente non è né in violazione del dovere di correttezza né costituisce causa di una – colpevole dunque – impossibilità sopravvenuta: si tratta invece della condotta conseguente all’inadempimento altrui, volta ad evitare un danno maggiore.

In altri termini, l’accertamento in fatto che ad essere inadempiente è stata l’Azienda, esclude, per logica conseguenza, che la mancata soddisfazione dell’interesse del creditore possa al contrario essere imputata a condotta colpevole di quest’ultimo, “esclude cioè l’inadempimento della controparte; né è mai stata prospettata, neanche nei gradi precedenti, una qualche ipotesi di inadempimento reciproco”.

Il ricorso è stato pertanto rigettato e l’Azienda ospedaliera, e quindi la Regione Lazio, dovrà farsi carico del costo dell’intervento che il paziente è stato costretto ad effettuare (e pagare) in una struttura privata.

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