Il risarcimento per il danno da “immissioni”

Chi è costretto a subire “immissioni” fastidiose, se non nocive, da parte di attività limitrofe alla sua abitazione ha il pieno diritto di vedersi riconosciuto il danno non patrimoniale per il disagio patito.

Lo ha ribadito la Cassazione, sesta sezione civile, con la sentenza n. 11930/22 depositata il 13 aprile 2022, condannando definitivamente un’azienda a risarcire la vicina danneggiata.

 

Una donna cita in causa un’attività per i rumori molestie e le esalazioni tossiche

La donna aveva citato in causa la società per ottenere il risarcimento dei danni biologico e da lesione del diritto alla vita privata e familiare, lamentando di essere stata vittima per anni di esalazioni tossiche e di immissioni rumorose intollerabili prodotte dall’azienda a causa dell’attività di raccolta, stoccaggio e commercio di carte, cartoni, vetro e plastica, svolta sul capannone confinante con la sua proprietà e la sua casa. Nel giudizio di prime cure, avanti il Tribunale di Napoli, la signora, oltre al divieto di continuazione di quell’attività produttiva, aveva chiesto, come detto, il risarcimento dei danni, patrimoniali e non.

Il primo grado di giudizio si era concluso con il riconoscimento delle immissioni di rumore e con l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno biologico patito dalla donna, conseguente all’accertamento di un’otopatia, ed esattamente di un “lieve disturbo distinico con associato disturbo dell’adattamento con notevole componente rivendicativa”. Inoltre, era stata accolta anche la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alle immissioni, liquidato equitativamente in trentamila euro, con esclusione invece dei danni patrimoniali, non essendo stato ritenuto dimostrato il nesso causale tra di essi e le patologie lamentate. Il giudice non si era invece pronunciato sull’inibitoria, dal momento che l’attività in corso di causa aveva cessato.

La Corte d’Appello di Napoli, a cui l’azienda aveva proposto gravame, con sentenza del 2020 aveva sostanzialmente confermato il giudizio di prime cure, accogliendolo solo quanto al denunciato vizio di extrapetizione, quanto alla liquidazione del danno morale.

La Società tuttavia non si è data per vinta e ha presentato ricorso anche per Cassazione, lamentando difetto di motivazione della sentenza di secondo grado impugnata e ritenendola anche carente quanto all’indicazione dei criteri per la quantificazione del danno determinato in via equitativa. Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte territoriale avrebbe utilizzato “la prova di un unico fatto”, ovvero il superamento della normale tollerabilità dei rumori, “per sancire la contemporanea sussistenza del danno evento e presumere (in re ipsa) il danno conseguenza”.

Ma la Cassazione ha rigettato tutti i motivi di doglianza. Gli Ermellini hanno innanzitutto ribadito che il giudice di merito deve indicare “almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio”, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”, e che tuttavia “ciò non esige, con specifico riferimento alla liquidazione equitativa del danno ex artt. 844 e 2059 cod. civ., l’adozione di criteri predeterminati, quali il ricorso ad una percentuale dell’invalidità temporanea o al valore reddituale dell’immobile, giacché la liquidazione del danno ex art. 2056 cod. civ. è essenzialmente da parametrare alle circostanze del singolo caso”.

 

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo impone un “consistente risarcimento”

Anzi, incalzano i giudici del Palazzaccio, “piuttosto, va assicurato, in caso di immissioni intollerabili, un consistente risarcimento, e ciò anche in conformità alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo”, la quale ha sanzionato più volte gli Stati aderenti alla convenzione che, in presenza di livelli di rumore significativamente superiori a quello massimo consentito dalla legge, non avevano adottato misure idonee a garantire una tutela effettiva del diritto al rispetto della vita privata e familiare.

In definitiva, affinché la quantificazione del danno in via equitativa abbia a “non risultare arbitraria” è sufficiente “l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico sul quale è fondata”, onere che nello specifico era stato pienamente soddisfatto dai giudici territoriali per la Corte di Cassazione.

 

Superamento dei limiti comprovato dalla consulenza tecnica

Ma, soprattutto, per gli Ermellini neppure il secondo motivo di ricorso è fondato. La Corte d’Appello, replica la Cassazione, “non ha fatto coincidere in un unico fatto (il superamento del limite della normale tollerabilità delle immissioni) la prova dell’esistenza del danno evento, o meglio dell’avvenuta lesione del diritto, e quella delle sue conseguenze pregiudizievoli”. Infatti, il tribunale territoriale aveva motivato il superamento della normale tollerabilità delle immissioni rumorose sulla base delle risultanze dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio, la quale aveva accertato che il rumore prodotto dalle lavorazioni “oscillava tra un minimo di 44,4 decibel ed un massimo di 50,9 decibel, mentre il rumore di fondo della zona, caratterizzata da particolare tranquillità, pari a 37, 7 decibel”.

Inoltre, la corte territoriale, proseguono gli Ermellini, aveva poi autonomamente motivato la ricorrenza del danno conseguenza lamentato dalla danneggiata, “escludendo espressamente che lo stesso potesse sussistere in re ipsa“, chiarendo che chi agisce in giudizio al fine di conseguirne il ristoro deve “provare di aver subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi al tal fin avvalere anche di presunzioni”, le quali erano state tratte da una duplice circostanza: l’appartamento della donna si trovava al primo piano e presentava quattro stanze su cinque che si affacciavano direttamente piazzale della società chiamata in causa; i rumori si sentivano anche nei giorni festivi e pure con gli infissi chiusi e persino nelle ore serali.

 

Va tutelato il diritto al rispetto della vita privata e familiare

Queste conclusioni, ribadisce la Cassazione arrivando al dunque, risultano conformi “alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa stessa Corte, secondo cui, la accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza, senza che sia necessario dimostrare un effettivo mutamento delle abitudini di vita.

La duplice circostanza valorizzata dalla sentenza, ossia che le immissioni interessassero la quasi totalità dei vani dell’appartamento della (omissis) e che le stesse non dessero requie, in nessun momento, a chi lo abitava, consentono di affermare in via presuntiva, secondo un dato di comune esperienza, la ricorrenza di quella modificazione peggiorativa del diritto al rispetto della vita privata e familiare nella quale si identifica, in tale ambito, il danno conseguenza”.

Il ricorso è stato pertanto rigettato con definitiva condanna dell’azienda a risarcire la vicina “tormentata” per anni.

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