Il giudizio di responsabilità civile e gli elementi dell’illecito civile

Il giudizio di responsabilità civile deve vertere unicamente sugli elementi costitutivi dell’illecito civile, senza dover riguardare, neppure incidentalmente, la responsabilità penale dell’imputato per il reato già contestatogli e sul quale l’accertamento è ormai definito e immodificabile. Con l’importante ordinanza n. 30496/22 depositata il 18 ottobre 2022 la Cassazione ha chiarito con estrema precisione la distinzione tra i due tipi di procedimento.

 

Pista ciclabile aperta all’utenza pur non essendo stata dotata dei presidi di sicurezza previsti

Quello in questione vedeva imputato un funzionario del Comune di Prato il quale, in qualità di dirigente dell’Area Opere Pubbliche e Ambiente, aveva redatto il progetto esecutivo di una pista ciclabile che doveva passare nel territorio comunale e ne aveva diretto i lavori di realizzazione. La ciclabile si estendeva anche al di fuori del centro abitato e intersecava una strada provinciale (via Manzoni) su cui transitavano regolarmente automobili e dalla quale veniva tagliata in due. il progetto prevedeva che, in corrispondenza di tale intersezione, priva di illuminazione artificiale nelle ore notturne, fossero realizzati un sistema di segnaletica orizzontale, verticale e di illuminazione che consentisse ai ciclisti e ai pedoni che percorrevano la pista di attraversare senza pericolo via Manzoni e un impianto semaforico a chiamata che, dove azionato dai pedoni e dai ciclisti, imponesse agli autoveicoli che transitavano sulla strada provinciale di fermarsi, consentendo l’attraversamento in sicurezza. Le opere di segnalazione ed illuminazione previste nel progetto esecutivo tuttavia non erano state realizzate e la pista ciclabile era stata comunque aperta al traffico pedonale e ciclistico, su decisione dello stesso dirigente, previa apposizione di transenne mobili, senza il previsto impianto semaforico e senza la segnaletica orizzontale e verticale di attraversamento.

L’unica segnaletica diretta a mettere in guardia gli automobilisti che transitavano lungo via Manzoni in prossimità dell’intersezione con la pista ciclabile era costituita dal segnale di pericolo generico e da quello di presenza di biciclette, mentre i ciclisti (e gli eventuali pedoni) che percorrevano la pista erano avvertiti dell’interruzione della stessa, in ciascuno dei due tratti separati dalla strada provinciale, dal segnale di fine pista e da quello di stop, in virtù dei quali erano tenuti a fermarsi e a dare la precedenza agli autoveicoli.

 

Due persone vengono investite e uccise, il dirigente del Comune finisce a processo

Il 21 gennaio 2005 una donna, mentre attraversava via Manzoni dopo aver percorso la pista ciclabile a bordo della sua bicicletta, venne travolta e uccisa da un’auto di passaggio che procedeva a velocità non adeguata, e la stessa sorte subì, il 4 novembre successivo, un altro uomo che aveva tentato, a piedi, il medesimo attraversamento. Entrambi i fatti si erano verificati in ora serale, dopo le 18.00. Solo dopo i due incidenti mortali, l’amministrazione comunale realizzò un sottopasso, prima non praticabile.

Il funzionario era stato quindi sottoposto a procedimento penale per il reato di cooperazione in omicidio colposo (artt. 113 e 589 c.p.), per aver cagionato, unitamente agli automobilisti, la morte delle due vittime, omettendo di far realizzare all’impresa esecutrice, in corrispondenza dell’attraversamento, idonea segnaletica orizzontale e luminosa nonché l’impianto semaforico, sebbene tali opere fossero previste nei grafici del progetto della pista ciclabile da lui stesso realizzato, e disponendo l’apertura al pubblico transito della pista stessa, a seguito del rilascio del certificato di ultimazione dei lavori, in assenza di tali opere, nonostante la situazione di evidente insicurezza, specie nelle ore notturne.

L’uomo era stato condannato in primo grado, ma assolto in appello. La sentenza di proscioglimento era stata impugnata per Cassazione dai congiunti ed eredi delle due vittime, costituiti parti civili. Con sentenza n. 6718/15 la quarta sezione penale della Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, aveva rinviato, ai sensi dell’art.622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello, perché decidesse sulla domanda risarcitoria proposta dai familiari delle due vittime, stabilendo che il giudice di merito avrebbe dovuto formulare il giudizio controfattuale in tema di causalità omissiva, valutando cioè l’incidenza impeditiva che avrebbero potuto avere sugli eventi lesivi verificatisi le opere indebitamente omesse, in particolare l’impianto semaforico, ove fossero state realizzate.

All’esito di separate riassunzioni delle parti civili rappresentate dai congiunti ed eredi delle due persone decedute, la Corte di appello di Firenze, disposta la riunione delle cause, con sentenza dell’8 agosto 2018, aveva rigettato la loro domanda, sulla base di una serie di rilievi. In primis, secondo i giudici la condanna civile del dirigente comunale al risarcimento del danno presupponeva l’accertamento, incidenter tantum, della sua responsabilità penale per il delitto colposo di cui agli artt. 113 e 589 c.p.

Trattandosi poi di un reato commissivo mediante omissione, in funzione dell’accertamento incidentale di tale responsabilità penale occorreva accertare la sussistenza della relazione di causalità tra l’omissione ascritta all’imputato e l’evento lesivo occorso alle vittime (causalità omissiva), la quale implicava in primo luogo, e preliminarmente, ai sensi dell’art.40, secondo comma, c.p., l’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento e del soggetto a cui tale obbligo sarebbe spettato (il cosiddetto titolare della posizione di garanzia); in secondo luogo, e successivamente, l’accertamento della concreta incidenza causale dell’omissione, in applicazione del principio della cosiddetta equivalenza causale di cui all’art.41 c.p.

 

Per i giudici del rinvio la messa in sicurezza della pista competeva alla Provincia

Ciò premesso in generale, nella fattispecie concreta l’indagine, a giudizio della Corte territoriale toscana, doveva arrestarsi, con esito negativo, alla fase preliminare, in quanto l’obbligo di mettere in sicurezza via Manzoni, nel punto di intersezione con la pista ciclabile, non sarebbe spettato al funzionario (che, nella qualità di dirigente comunale, aveva progettato la costruzione e diretto i lavori di realizzazione della pista medesima), ma alla Provincia, quale ente proprietario della strada: nessuna posizione di garanzia, secondo il paradigma dell’art.40, secondo comma, c.p., era dunque configurabile in capo al funzionario del Comune, il quale, escluso il concorso della sua condotta omissiva tra le cause determinative degli eventi, riconducibili in via esclusiva alle colpose condotte attive degli automobilisti, andava pertanto esente da responsabilità.

Quand’anche, poi, avevano aggiunto i giudici fiorentini, fosse stata ritenuta rilevante la sua condotta omissiva sotto il profilo oggettivo, la sussistenza della sua responsabilità penale – da accertarsi, come detto, incidenter tantum, in funzione di provvedere sulla domanda civile risarcitoria – avrebbe comunque dovuto essere esclusa sotto il profilo soggettivo, non potendo individuarsi la colpa specifica del dirigente comunale nella violazione della normativa sulle piste ciclabili “a raso” (d.m. n. 557 del 1999), dal momento che, nel caso di specie, era stato accertato che la pista ciclabile si interrompeva, con tanto di segnaletica, prima di intersecare la strada provinciale, con conseguente obbligo dei ciclisti di dare la precedenza ai veicoli che su di essa transitavano, prima di procedere all’attraversamento.

Contro questa sentenza della Corte fiorentina le parti civili già costituite nel processo penale hanno quindi proposto un nuovo ricorso per cassazione, sulla base di sette motivi, lamentando innanzitutto il fatto che i giudici avrebbero disatteso i principi di diritto fissati dalla Cassazione penale in sede di rinvio ex art. 622 c.p.p. Inoltre, hanno censurato le conclusioni del verdetto laddove aveva riconosciuto la titolarità della posizione di garanzia in capo alla Provincia, quale ente proprietario della strada provinciale, anziché all’imputato, nella sua qualità di dirigente del Comune che aveva progettato la pista ciclabile, dirigendo i lavori relativi alla sua costruzione, non valorizzando gli elementi a suo carico tra cui la titolarità del potere di custodia della pista ciclabile, che gli spettava in qualità di dirigente del Comune e soggetto deputato alla realizzazione dell’opera.

Ancora, i ricorrenti si dolevano del fatto che la Corte d’appello avesse omesso di riconoscere ed accertare la sussistenza del nesso di causalità tra l’omessa realizzazione delle opere di messa in sicurezza della pista in prossimità dell’attraversamento (imputabile all’imputato) e gli incidenti mortali successivamente verificatisi, e che non avesse ritenuto che l’attraversamento della Provinciale fosse un attraversamento “a raso”, con conseguente applicabilità degli artt. 4 e 9 del dm 30 novembre 1999, n. 557. In conclusione i familiari delle due vittime hanno sottolineato il contrasto irriducibile tra i due passaggi motivazionali della sentenza in cui si affermava, dapprima, che le opere di messa in sicurezza previste dal progetto comunale avrebbero assicurato la precedenza di pedoni e ciclisti nell’attraversamento e, poi, che l’imputato non poteva essere considerato responsabile per la mancata esecuzione di tali opere, cui avrebbe dovuto invece ritenersi tenuto in ragione della specifica posizione di garanzia insita nel ruolo rivestito agli effetti dell’esecuzione del progetto.

 

Il giudice del rinvio non ha effettuato il giudizio controfattuale richiesto

Doglianze che la Suprema Corte ha accolto. Gli Ermellini spiegano che la sentenza già emessa dalla Cassazione, quarta sezione penale, di accoglimento del ricorso delle parti civili avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato, aveva evidenziato che il dirigente comunale era “titolare di una specifica posizione di garanzia insita nel ruolo rivestito agli effetti dell’esecuzione del progetto” e che, essendo egli consapevole, in ragione di tale sua posizione, dei rischi derivanti per la pubblica incolumità dalla decisione di escludere i dispositivi di sicurezza (segnaletica stradale, impianto di illuminazione, impianto semaforico a chiamata) da realizzarsi, secondo il progetto da lui stesso redatto, nel luogo di intersezione tra la pista ciclabile e la strada provinciale, aveva comunque incaricato l’addetto comunale alla manutenzione e segnaletica stradale di apporre transenne mobili al termine dei due tronconi della pista. Sul rilievo che tale accorgimento era già stato ritenuto dal giudice di primo grado – con argomentazione non adeguatamente confutata in appello – del tutto insufficiente a tutelare l’incolumità dei pedoni e ciclisti che si fossero accinti ad attraversare la via provinciale, la sentenza penale di legittimità aveva quindi affermato che sarebbe stato necessario verificare, attraverso il  giudizio controfattuale, se la posizione in essere dell’azione doverosa omessa (vale a dire, l’installazione dell’impianto semaforico e degli altri dispositivi di segnalazione ed illuminazione previsti in progetto ma poi non realizzati) avrebbe impedito la verificazione degli eventi mortali.

Con le conclusioni a cui è giunta, quale giudice del rinvio, tuttavia, la Corte d’appello di Firenze “non solo ha disatteso le contrarie affermazioni contenute nella sentenza della Cassazione penale, ma ha violato tutti i principi enunciati da questa Corte con riferimento all’oggetto della cognizione del giudice civile chiamato, ex art.622 c.p.p., a decidere sulla domanda di risarcimento del danno già proposta mediante costituzione di parte civile nel processo penale, allorché gli effetti penali della sentenza penale di merito (di condanna o di proscioglimento dell’imputato) siano ormai cristallizzati e la Corte di cassazione si sia limitata ad annullare le disposizioni o i capi concernenti l’azione civile o ad accogliere, agli effetti civili, il ricorso proposto della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento” spiega la Suprema Corte, rammentando che tali principi “non solo si sono consolidati all’esito di numerose pronunce di questa Corte, sia in sede penale che in sede civile, ma, per un verso, hanno trovato autorevole conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ne ha esteso la portata, con i dovuti temperamenti, a tutte le ipotesi in cui, in deroga alla regola generale della “accessorietà” dell’azione civile esercitata nell’ambito del processo penale, lo stesso giudice penale sia chiamato all’accertamento dell’illecito civile in presenza di una sentenza penale di proscioglimento”.

 

La Suprema Corte chiarisce i principi in materia di rapporto tra azione civile e penale

In base a tali principi, la disciplina dei rapporti tra l’azione civile (risarcitoria o restitutoria) e i poteri del giudice (quanto ai limiti, all’oggetto e alle modalità del suo accertamento), nell’ipotesi in cui essa sia esercitata all’interno del processo penale, può essere ricondotta a sistema nei termini seguenti. Il criterio regolatore generale è quello della “accessorietà” e della “subordinazione” dell’azione civile rispetto a quella penale, criterio che trova fondamento “nelle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”, e che ha quale naturale implicazione quella per cui l’azione civile, ove esercitata all’interno del processo penale, “è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura” di questo processo.

Questo criterio regolatore generale trova la sua principale espressione nell’art.538, comma 1, c.p.p. il quale individua il presupposto indispensabile della “decisione” del giudice penale sulla domanda per le restituzioni o il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile, nella pronuncia di una sentenza di condanna penale dell’imputato, escludendo conseguentemente che la predetta decisione possa essere resa in costanza di una pronuncia di proscioglimento, sia essa di assoluzione che di non doversi procedere.

La regola generale appena illustrata subisce, nel sistema del codice di procedura penale, tre eccezioni, concernenti i gradi di impugnazione, in cui al giudice dell’impugnazione penale o al giudice del rinvio in seguito a cassazione, viene attribuito il potere di conoscere della domanda civile, pur in presenza di una pronuncia penale di proscioglimento.  La prima eccezione è quella stabilita dall’art.576 c.p.p., il quale prevede che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio o all’esito del rito abbreviato. La seconda eccezione è quella stabilita dall’art.578 c.p.p., il cui comma 1, all’esito della sostituzione della rubrica e dell’aggiunta del comma 1-bis, operate con l’art.2, comma 2, lett. b), della legge 27 settembre 2021, n.134, continua a prevedere che il giudice dell’appello penale o la Corte di cassazione provvedono sulla domanda proposta dalle parti civili allorché, su impugnazione dell’imputato o del pubblico ministero, pronunciano sentenza di proscioglimento per prescrizione o amnistia sopravvenute alla condanna emessa nel grado precedente. La terza eccezione è quella stabilita dall’art.622 c.p.p., per effetto del quale, nel giudizio di cassazione, se gli effetti penali della sentenza di merito sono ormai cristallizzati e su di essi è sceso il giudicato, la cognizione sulla pretesa risarcitoria e restitutoria si scinde completamente dall’accertamento della responsabilità penale e viene compiuta, in sede rescindente, dalla Corte di legittimità e, in sede rescissoria, dal giudice civile di merito competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.

A tali eccezioni alla regola dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, tutte relative ai gradi di impugnazione e già contemplate nel sistema originario del codice di procedura penale, si sono aggiunte ulteriori ipotesi di continuità tra sentenza penale di proscioglimento e obbligo di procedere all’accertamento della responsabilità civile da parte dello stesso giudice penale o del giudice civile competente a seguito di rinvio: la prima è costituita dal già richiamato comma 1-bis dell’art.578 c.p.p. introdotto dall’art.2, comma 3, della legge n. 134 del 2021, che, nel contesto della nuova disciplina della prescrizione dei reati, demanda al giudice civile competente per valore in grado di appello investito della “prosecuzione” del giudizio – che dovrà decidere valutando le prove acquisite nel processo penale – il compito di confermare o riformare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile in seguito alla declaratoria di improcedibilità dell’azione penale da parte del giudice penale di appello o della Corte di cassazione; la seconda è quella relativa all’ipotesi in cui l’imputato venga prosciolto per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art.131-bis del codice penale, ipotesi in cui, a seguito della parziale declaratoria di incostituzionalità dello stesso art.538 c.p.p, già il giudice di primo grado, pur emettendo una decisione che formalmente appartiene al genus delle pronunce di proscioglimento, nondimeno è tenuto a provvedere sulla domanda civile risarcitoria o restitutoria, in deroga alla regola generale.

 

In tali ipotesi l’accertamento sull’illecito civile è autonomo da quello sull’illecito penale

In tutte le ipotesi di scostamento dalla regola dell’accessorietà di cui all’art.538, comma 1, c.p.p., l’accertamento condotto sull’illecito civile è completamente autonomo e non risente dell’esito del diverso accertamento già compiuto (e ormai definito) sull’illecito penale. L’autonomia dell’accertamento dell’illecito civile rispetto a quello penale è imposta già dalla necessità di rispettare il diritto alla presunzione di innocenza in tutti i casi in cui l’accertamento della responsabilità penale ha avuto esito negativo e l’imputato abbia ottenuto una sentenza di proscioglimento. Dalla copiosa giurisprudenza della Corte EDU in relazione all’art. 6, par. 2 della Convenzione EDU, emerge infatti che questa norma tutela il diritto alla presunzione di innocenza anche al di fuori di un procedimento penale e successivamente alla sua conclusione, garantendo la persona, che da tale procedimento sia stata prosciolta (in merito o in rito), ad essere trattata come innocente in relazione al reato precedentemente ascrittole in ogni procedimento successivo che non riguardi l’imputazione penale ma che con essa presenti un legame qualificato, derivante dalla necessità di esaminare l’esito del procedimento penale o di apprezzare le prove in esso assunte o di valutare la partecipazione dell’interessato agli atti e agli eventi che erano stati posti a fondamento dell’imputazione penale.

Tale garanzia per l'(ex) imputato si traduce in una limitazione ai poteri cognitivi e dichiarativi dell’autorità investita del nuovo procedimento. Questa autorità, infatti, dovendo trattare la persona come “innocente agli occhi della legge”, non può emettere provvedimenti che presuppongano un giudizio di colpevolezza o che siano fondati su un nuovo apprezzamento della responsabilità penale della persona in ordine al reato precedentemente contestatole. Analogamente, dalle pronunce rese della Corte di Giustizia in relazione all’art.48, comma 1, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché in relazione agli artt. 3 e 4 della Direttiva 2016/UE/343 del Parlamento europeo e C.C. 05.07.2022 R.G. n.35379/2018 del Consiglio del 9 marzo 2016, emerge che anche nell’ambito dell’ordinamento euro-unitario viene protetto il diritto della persona a non essere presentata come colpevole nelle decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza, sinché questa non sia stata legalmente provata.

A tale diritto viene quindi attribuita una portata e un significato che tendono a sovrapporsi a quelli che esso assume nell’ambito convenzionale. Al riguardo, la dottrina non ha mancato di notare come la direttiva dell’Unione Europea 2016/343, “recependo” indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, sembra ormai attestare un’interpretazione estensiva della presunzione di innocenza, da garanzia destinata ad operare non soltanto sul piano processuale a diritto della personalità, inteso come diritto della persona a non essere presentata come colpevole prima che la sua responsabilità sia stata legalmente accertata.

L’esigenza di accertamento dell’illecito civile quale illecito distinto da quello penale trova inoltre fondamento nei caratteri di “ontologica autonomia” e nei “presupposti di specificità” che esso presenta, quale illecito avente struttura oggettiva e soggettiva distinta rispetto all’illecito penale. Pertanto, in tutte le predette ipotesi in cui l’accertamento della responsabilità penale è stato ormai compiuto con esito positivo o negativo e risulta cristallizzato in una pronuncia definitiva di condanna (come può accadere nella prima delle due fattispecie contemplate dall’art.622 c.p.p.) o di proscioglimento (come senz’altro accade nella seconda fattispecie contemplata dal medesimo art.622 c.p.p. – corrispondente alla fattispecie verificatasi nella vicenda in esame -, nonché nelle altre ipotesi, sopra enumerate, di scostamento dalla regola dell’accessorietà dell’azione civile innestata sul tronco del processo penale), il giudice investito della cognizione sulla domanda civile risarcitoria (sia esso lo stesso giudice penale che ha pronunciato il proscioglimento sia esso il giudice civile competente per il merito all’esito della fase rescindente svoltasi dinanzi alla Corte di legittimità) non è chiamato ad accertare, neppure in via meramente incidentale, se si sia integrata la fattispecie tipica contemplata dalla norma incriminatrice in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato e se da essa siano derivate conseguenze dannose, patrimoniali o non patrimoniali (art.185 c.p.); egli è invece chiamato ad accertare se si sia integrata la diversa fattispecie atipica dell’illecito civile in tutti i suoi elementi costitutivi (art.2043 c.c.).

 

L’accertamento dell’illecito civile

In particolare, con riguardo al “fatto”, già descritto quale fatto storico nell’imputazione penale, il giudice deve chiedersi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) già contestata all’imputato come reato, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 c.c., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno.

Con riguardo al “danno”, nel contesto della cognizione devolutagli, il giudice deve individuare sia l’evento lesivo (il cosiddetto danno-evento) sia le conseguenze dannose (i cosiddetti danni-conseguenza): il primo non si si identifica nella lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice in cui si iscriveva il reato originariamente contestato (il cosiddetto oggetto giuridico del reato), ma si identifica nella lesione della situazione soggettiva civilmente rilevante di cui è titolare il soggetto danneggiato; il secondo consiste nelle conseguenze risarcibili della lesione, che possono essere di natura sia patrimoniale che non patrimoniale. In proposito, la Corte costituzionale ha sottolineato che la mancanza di un accertamento incidentale della responsabilità penale non preclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l’accertamento giudiziale del suo diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, la cui tutela deve essere assicurata, nella valutazione sistemica e bilanciata dei valori di rilevanza costituzionale, al pari di quella, per l’imputato, derivante dalla presunzione di innocenza.

La determinazione dei “danni-conseguenza” (che presuppone l’accertamento della “causalità giuridica”) non è richiesta nei casi in cui il giudice si limiti ad emettere sentenza di condanna generica, essendo necessaria solo ai fini della liquidazione del risarcimento. Quanto poi al “nesso causale”, il giudice non deve accertare la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all’evento (e che non è richiesta nei reati di pura condotta), ma deve distinguere la causalità materiale (la relazione di causalità tra il fatto e l’evento dannoso) dalla causalità giuridica (la relazione di causalità tra l’evento dannoso e le conseguenze patrimoniali o non patrimoniali risarcibili) applicando, ai fini della loro determinazione, le relative regole di struttura e di funzione.

 

Il criterio del “più probabile che non

Il criterio di accertamento funzionale, in particolare, non si identifica nella regola dell’alto grado di probabilità logica, ma nel criterio “più probabile che non” o della “probabilità prevalente“, che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell’ipotesi contraria.

Infine, con riguardo all’aspetto “soggettivo” dell’illecito, il giudice non deve accertare l’elemento spirituale richiesto ai fini dell’integrazione del reato (ad esempio, il dolo specifico previsto dalla fattispecie criminosa che aveva formato l’oggetto dell’imputazione penale) ma qualsivoglia degli elementi (dolo o colpa) dell’azione od omissione che qualificano sul piano psicologico la condotta illecita aquiliana. Dunque, la condanna civile potrà essere pronunciata anche se sia emersa la colpa in luogo del dolo poiché la variazione in meius dell’elemento psicologico dell’illecito non immuta i fatti costitutivi della domanda risarcitoria proposta con l’esercizio dell’azione civile in sede penale.

Viceversa, l’eventuale mutazione del titolo di responsabilità (per la configurazione di una ipotesi speciale di responsabilità ai sensi del codice civile o di una legge speciale), salvo che non fosse stata già prospettata con l’atto di costituzione di parte civile, non può essere successivamente dedotta dinanzi al giudice, che, ove conoscesse di tali fattispecie, incorrerebbe nel vizio di extrapetizione.

Il giudizio di responsabilità civile, in sintesi, deve vertere unicamente sugli elementi costitutivi dell’illecito civile, senza dover riguardare, neppure incidenter tantum, la responsabilità penale dell’imputato per il reato già contestatogli, l’accertamento sul quale è ormai definito ed immodificabile.

Con particolare riferimento alla fattispecie di cui all’art.622 c.p.p., le Sezioni Unite penali della Cassazione – sulla premessa che il giudizio rescissorio di “rinvio” dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello, previsto da tale disposizione, ha, in realtà, natura di giudizio autonomo rispetto al precedente giudizio rescindente – hanno specificato che esso è interamente governato dalla disciplina processuale civilistica sia con riguardo alla fase introduttiva che con riguardo alla fase istruttoria. Dunque, a differenza delle altre ipotesi sopra illustrate di scostamento dalla regola dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, nella fattispecie prevista dall’art.622 c.p.p. non soltanto la cognizione del giudice civile ha per oggetto l’accertamento, sul piano oggettivo e soggettivo, degli elementi costitutivi dell’illecito civile, ai sensi dell’art. 2043 c.c., mentre non tocca, neppure incidentalmente, la sussistenza dei requisiti strutturali del reato, ma, inoltre, trovano applicazione, nell’ambito di una “definitiva e integrale translatio iudicii”, oltre ai criteri di giudizio funzionali all’accertamento della responsabilità civile, tutte le regole processuali che presiedono all’esercizio della giurisdizione civile, nonché quelle probatorie, sia con riguardo ai mezzi di prova in senso stretto che con riguardo all’attività di valutazione dei risultati probatori.

 

Gli errori della Corte d’appello fiorentina

Dopo quest’ampia spiegazione giuridica, gli Ermellini tornano quindi al caso di specie chiarendo che l’illegittimità della sentenza impugnata “si palesa anzitutto in relazione all’esigenza, preliminarmente avvertita dalla Corte territoriale, di accertare, sia pure in via meramente incidentale, la responsabilità penale del convenuto (ex imputato) in ordine al delitto colposo ascrittogli nell’ormai definito procedimento penale: la possibilità di procedere a tale accertamento, infatti, non solo era ormai preclusa dalla contraria e prevalente esigenza di rispettare il diritto alla presunzione di innocenza, che esclude una successiva valutazione di colpevolezza se questa non sia stata accertata in sede penale, ma era inoltre inibita dal principio secondo il quale il giudice adìto ai sensi dell’art.622 c.p.p. non è chiamato a formulare, anche incidenter tantum, un verdetto di colpevolezza penale come condizione preliminare per una decisione sulla domanda civile, ma è chiamato a stabilire, in applicazione delle regole processuali e probatorie civilistiche, se ricorrono, nella fattispecie sottopostagli, gli elementi costitutivi della responsabilità civile, in funzione del soddisfacimento o meno della pretesa risarcitoria”.

In questa prospettiva, prosegue la Suprema Corte, l’individuazione della posizione di garanzia, che avrebbe permesso di qualificare come doverosa l’azione omessa dall’imputato, in funzione della formulazione del giudizio controfattuale di accertamento della causalità omissiva, ai sensi dell’art. 40, secondo comma, c.p., “avrebbe dovuto essere compiuta non con riferimento all’obbligo di manutere e mettere in sicurezza la via provinciale (il quale non poteva che spettare all’ente proprietario della strada), ma con riferimento ai doveri assunti dal convenuto, dirigente dell’Area Opere Pubbliche e Ambiente del Comune, nella sua qualità di progettista e direttore dei lavori della pista ciclabile costruita sul territorio comunale”.

La Corte territoriale, in altre parole, avrebbe dovuto chiedersi se la titolarità della posizione di garanzia, in relazione alla quale si configurasse, in capo al funzionario, un obbligo giuridico di attivarsi in prevenzione di eventuali eventi dannosi, fosse, come già rilevato nella sentenza della Cassazione penale, “insita nel ruolo rivestito agli effetti dell’esecuzione del progetto”; e a tale questione, che implicava la formulazione di un giudizio di merito, “la Corte di appello avrebbe dovuto motivatamente rispondere previo libero apprezzamento di tutte le significative circostanze di fatto emerse nel corso del giudizio, in primo luogo la circostanza che il dirigente comunale, dopo avere disposto che la pista ciclabile fosse aperta al pubblico transito senza che fossero realizzati i dispositivi di sicurezza previsti nel progetto da lui stesso redatto, essendo consapevole dei rischi derivanti da tale decisione per la pubblica incolumità, proprio in ragione della sua peculiare posizione aveva sentito il dovere di attivarsi, dando l’incarico – peraltro rivelatosi inutile – di apporre transenne mobili in corrispondenza del luogo di intersezione della pista ciclabile con la via provinciale”. 

Individuata quindi la posizione di garanzia insita nel ruolo rivestito dall’imputato agli effetti dell’esecuzione del progetto – e qualificata come doverosa l’attività, da lui indebitamente omessa, di realizzazione dei progettati sistemi di segnaletica stradale e di illuminazione notturna, nonché dell’impianto semaforico, prima dell’apertura della pista ciclabile al pubblico transito (opere da eseguirsi previo eventuale coordinamento con l’ente proprietario della strada intersecata dalla pista medesima) – “la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere, con una seconda valutazione di merito, alla formulazione del giudizio controfattuale di causalità omissiva, chiedendosi se la realizzazione dei predetti dispositivi di sicurezza (ed in particolare dell’impianto semaforico a chiamata, che avrebbe imposto ai veicoli in transito sulla provinciale di arrestarsi, consentendo a ciclisti e pedoni l’attraversamento in sicurezza) avrebbe impedito il verificarsi degli eventi mortali. Questo giudizio, peraltro, riguardando la causalità civilistica e non quella penalistica, avrebbe dovuto essere formulato in applicazione, non già del criterio dell’alto grado di probabilità logica, ma del criterio della probabilità prevalente”: pertanto, in funzione dell’accertamento del nesso causale tra l’indebita omissione dell’imputato e gli incidenti mortali successivamente verificatisi, non sarebbe stato necessario accertare che l’osservanza del dovere violato avrebbe certamente impedito l’evento al di là di ogni ragionevole dubbio, ma sarebbe stato sufficiente accertare che l’eventualità che l’evento fosse impedito era più probabile dell’eventualità contraria.

Infine, concludono i giudici del Palazzaccio, sotto il profilo soggettivo, la circostanza che in seguito alla translatio iudicii verificatasi ai sensi dell’art. 622 c.p.p., la cognizione del giudice fosse circoscritta all’accertamento della fattispecie civilistica dell’illecito aquilano, senza toccare, neppure incidentalmente, la verifica degli elementi costitutivi del reato originariamente contestato, “escludeva la necessità che la Corte di merito indagasse sulla sussistenza di profili di colpa specifica, essendo essa chiamata a stabilire soltanto se, in confronto del convenuto, fosse formulabile un giudizio di colpa in senso oggettivo, rilevante ai sensi dell’art.2043 c.p.c., per aver tenuto un contegno obiettivamente inosservante della diligenza dovuta secondo parametri sociali e professionali di condotta riconducibili alla posizione rivestita e all’attività esercitata”. La Corte di appello, in altre parole, avrebbe dovuto motivatamente valutare se – nell’omettere di far realizzare all’impresa esecutrice (eventualmente previo coordinamento con la Provincia, quale ente proprietario della strada) le necessarie opere di messa in sicurezza dell’attraversamento della via provinciale, così violando le previsioni contenute nel progetto esecutivo della pista ciclabile da lui stesso predisposto; nel decidere di far apporre, in luogo dei progettati dispositivi di sicurezza, le transenne mobili rivelatesi del tutto inidonee a rimuovere l’evidente situazione di pericolo per la pubblica incolumità creatasi per effetto della incompiuta esecuzione del progetto; e, infine, nel disporre l’apertura al pubblico transito della pista ciclabile a seguito del rilascio del certificato di ultimazione dei lavori, in assenza delle dette opere, pur avendo consapevolezza della sussistenza della predetta situazione di pericolo, specie nelle ore notturne – il funzionario comunale avesse tenuto un comportamento obiettivamente non conforme al modello di condotta diligente esigibile in ragione della sua qualità di dirigente dell’Area Opere Pubbliche del Comune nel cui territorio si trovava la pista ciclabile e in relazione alla sua posizione specifica di progettista esecutivo della pista medesima, nonché di soggetto deputato a seguire e dirigere i lavori per la sua realizzazione. Ergo, sentenza cassata con nuovo rinvio alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione.

 

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