LA MORTE DEL PROSSIMO CONGIUNTO: IL RISARCIMENTO DEL DANNO MORALE DA LUTTO

Quando si parla di danno da perdita del rapporto parentale si fa generalmente riferimento alla lesione subita da un soggetto a seguito dell’uccisione del congiunto per illecito comportamento altrui. Si pensi, per esempio, all’ipotesi di sinistro stradale mortale o di errata prestazione medica.

Tale lesione dà luogo ad un danno non patrimoniale – consistente, appunto, nella perdita del rapporto parentale -, che si ritiene presunto allorché colpisca soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare.

In presenza di un legame affettivo di particolare intensità (si pensi al rapporto tra genitore e figlio o tra fratelli), dunque, non è necessario che venga fornita la prova specifica della sofferenza subita, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione. La prova del danno morale, infatti, è correttamente desunta dalle indubbie sofferenze patite dai parenti, sulla base dello stretto vincolo familiare, di eventuale coabitazione e, comunque, di frequentazione, che essi avevano avuto quando ancora la vittima era in vita.

In relazione al fondamento giuridico di tale diritto risarcitorio, deve opportunamente richiamarsi il contenuto della sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni Unite del novembre 2008 che, come noto, viene a buon dritto considerata uno spartiacque in materia di risarcimento danni, laddove viene sancito il principio dell’integrale risarcimento del danno alla persona, che non consente limitazioni risarcitorie al ristoro del pregiudizio areddituale e che dovrebbe costituire il criterio guida del giudice di merito nella liquidazione del danno. In estrema sintesi la Suprema Corte – ritenendo il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. categoria unitaria in quanto tale non suscettibile di suddivisione al suo interno in altre categorie – stabilisce che la sofferenza patita nel momento in cui la perdita (del congiunto) è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita sono componenti del “complesso pregiudizio che va integralmente ed unitariamente risarcito” (Cass. Civ. S.U. 26972/2008).

La giurisprudenza successiva al novembre 2008 – di merito e di legittimità – ha, in seguito, tradotto i principi prima tratteggiati, soffermandosi in particolare su quelli che regolano la risarcibilità di questo danno. E quindi sulla prova della qualità del rapporto venuto meno a seguito della morte, sull’intensità del legame, degli affetti e sulle ricadute concrete in termini di sconvolgimenti alla routine quotidiana che la perdita ha apportato. In tal senso si leggano: Trib. Bologna III sez. 13.11.2008; Trib. Lecce sez. Maglie sent. 29.11.2008 n. 368; Trib. Torre Annunziata sez. Castellamare di Stabia 2.12.2008; Tribunale di Milano X sez. 16.2.2009 m. 2157; Corte di Cass. S.U. 14.1.2009 n. 557; Cass. Civ. III sez. 22.6.2009 n. 14555. Il diritto alla tutela della famiglia trova ovviamente il suo fondamento e adeguato sostegno nel disposto costituzionale degli artt. 3, 29 e 32. In particolare, l’art. 29 disciplina ed individua il ruolo della famiglia come ereditato dal diritto naturale, preesistente alla disciplina dell’ordinamento giuridico.

Tale danno deve essere risarcito in un’unica soluzione come danno non patrimoniale, ricomprendendo in esso tutti i possibili aspetti di esso, ovvero sofferenze fisiche e psichiche, danno alla vita di relazione, danno agli affetti familiari, ecc. In questo senso, dopo le S.U. citate, si è più volte confermato il pensiero della Cassazione. Ancora, gli ermellini hanno precisato che: “il danno da lesione del rapporto parentale è ontologicamente diverso da quello che consegue alla lesione della integrità psicofisica (danno lato sensu, biologico), si collega alla violazione di un diritto di rilevanza costituzionale diverso dal diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., l’uno e l’altro, peraltro, definitivamente trasmigrati – non come autonome categorie di danno, ma come entità descrittive della conformazione che l’unitaria figura del danno non patrimoniale di volta in volta assume in concreto – nell’area normativa dell’art. 2059 cod. civ. Più nello specifico, il danno da perdita del rapporto parentale va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” Cass. Civ. III sez. 9.5.2011 n. 10107 5 Cass. Civ. III sez. 12408/2011.

Più complessa risulta, invece, la questione della risarcibilità del danno in esame in favore di soggetti estranei a tale ristretto ambito familiare, quali i nonni, i nipoti, il genero o la nuora, in quanto categorie per le quali la magistratura impone la dimostrazione della prova di un pregresso, intenso e costante rapporto con la vittima, che legittimi un ristoro patrimoniale per la perdita del congiunto: prova che, come anticipato, non è richiesta per i membri di quella che in sociologia viene definita famiglia nucleare, ovvero la comunità riproduttiva composta da madre, padre e figli.

I numerosi interessi in gioco sulla materia hanno portato nel tempo la magistratura ad adottare provvedimenti talvolta contraddittori, alternando momenti di apertura alla risarcibilità della lesione del rapporto parentale a categorie sempre più ampie di parenti, ad altri di manifesta chiusura.

Significativa, a riguardo, una pronuncia del 16 marzo 2012, con cui la Suprema Corte – sentenza n. 4253 – ha affermato che la preoccupazione principale che dovrebbe guidare il giudice nell’individuazione dei legittimati dovrebbe essere quella di “evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati”. Data questa premessa, già in sé censurabile, la Corte aggiunge, per giustificare l’esclusione di altri parenti dal novero dei soggetti risarcibili, ed in particolare dei nonni, che “dai precetti costituzionali dedicati alla famiglia (art. 29, 30 e 31 Cost.)” emergerebbe “una famiglia (anche di fatto) nucleare, incentrata su coniuge, genitori e figli, rispetto alla quale soltanto è delineata la trama dei diritti e doveri reciproci”.

E’ tuttavia evidente che tale principio dovesse scontrarsi con una differente realtà sociale, nella quale la necessità e l’opportunità che entrambi i genitori siano impegnati in attività lavorative per la maggior parte della giornata, unita ad una maggiore longevità degli anziani, sempre più attivi ed in salute, ha portato ad una frequentazione molto più assidua tra nonni e nipoti.

Come sempre accade, prima ancora dell’intervento del legislatore, è spesso la magistratura ad adeguare l’interpretazione delle norme all’evoluzione sociale in atto nel nostro Paese. In linea con tali presupposti è quindi intervenuta la III sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 29735/2013, affronta un particolare aspetto connesso al risarcimento del danno non patrimoniale già dibattuto in giurisprudenza e non risolto in maniera univoca, ovvero la configurabilità della condanna al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei nonni della vittima di un incidente stradale, quando gli stessi non sono conviventi con il nipote deceduto.

Gli Ermellini, nella citata pronuncia, muovono dal contenuto dell’art. 74 del cod. proc. Penale, che distingue il diritto al risarcimento “iure proprio”, che è il diritto del soggetto al quale il reato ha direttamente recato danno, dal diritto al risarcimento “iure successionis”, che spetta solo ai successori universali e che sorge quando si sia verificato un depauperamento del patrimonio della vittima in conseguenza dell’accadimento. Di conseguenza i successibili, che non siano, in concreto, anche eredi, non possono agire “iure successionis”, non escludendosi però, per i successibili che siano prossimi congiunti della vittima, la legittimazione ad agire “iure proprio” per il ristoro dei danni patrimoniali e, soprattutto, non patrimoniali sofferti.

In tale ottica, secondo un primo orientamento giurisprudenziale (Corte di Cass. Sez. IV n. 38809, 21.10.2005), è stata considerata sicuramente ammissibile la legittimazione alla costituzione di parte civile dei nonni della vittima di omicidio colposo da incidente stradale, a prescindere dal requisito della convivenza, in quanto gli stessi possono ben collocarsi tra i soggetti cui il reato ha recato danno, sia esso patrimoniale o, soprattutto, non patrimoniale, ponendo l’accento sul ruolo assunto nel tempo dai nonni quali supplenti dei genitori, impegnati entrambi, nella maggioranza dei casi, in attività di lavoro, circostanza, questa, che li lega maggiormente che nel passato ai nipoti, anche se ormai adulti. In altri termini, secondo questa interpretazione fondamentale, è il vincolo di sangue che risente, sul piano affettivo, della morte, ancorché colposa, del congiunto. Nel prosieguo della disamina storico-giuridica condotta dalla III Sezione Penale, viene, quindi, richiamato il diverso orientamento della III Sezione Civile, che nel marzo 2012 ha affermato che nell’ambito del danno non patrimoniale da perdita di congiunto, il rapporto reciproco tra nonni e nipoti, per essere giuridicamente qualificato e rilevante, deve essere ancorato alla convivenza, escludendo che, in assenza di questo presupposto, possa provarsi in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da affetto reciproco e solidarietà con il familiare defunto (Sez. III civ. n. 4253, 16 marzo 2012, che riprende Sez. III civ. n. 6938, 23 giugno 1993).

Le ragioni sulle quali si fondano tali conclusioni vengono individuate: nella configurazione “nucleare” della famiglia, incentrata su coniuge, genitori e figli, come emergente dalla Costituzione; nella posizione dei nonni nell’ordinamento giuridico, in quanto le disposizioni civilistiche che, specificamente, li concernono non consentono di poter fondare un rapporto diretto, giuridicamente rilevante, tra nonni e nipoti, evidenziando, invece, un rapporto mediato dai genitori o di supplenza; la necessità di bilanciare l’esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati con quella di assicurare la tutela di valori costituzionalmente garantiti.

La convivenza viene, quindi, individuata come “connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, anche allargati, caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarietà, di sostegno economico”, specificando che “solo in tal modo il rapporto tra danneggiato primario e secondario assume rilevanza giuridica ai fini della lesione del rapporto parentale, venendo in rilievo la comunità familiare come luogo in cui, attraverso la quotidianità della vita, si esplica la personalità di ciascuno (art. 2 Cost.).

Nel contrapporre i due diversi orientamenti sopra descritti, gli Ermellini della cassazione penale giungono alla conclusione che non possa ritenersi determinante il requisito della convivenza, poiché attribuire a tale situazione un rilievo decisivo porrebbe ingiustamente in secondo piano l’importanza di un legame affettivo e parentale la cui solidità e permanenza non possono ritenersi minori in presenza di circostanze diverse, che comunque consentano una concreta effettività del naturale vincolo nonno-nipote: ad esempio, una frequentazione agevole e regolare per prossimità della residenza o anche la sussistenza – del tutto conforme all’attuale società improntata alla continua telecomunicazione – di molteplici contatti telefonici o telematici (oggi ormai estremamente agevoli).

A ben guardare, anzi, è proprio la caratteristica suddetta di intenso livello di comunicazione in tempo reale che rende del tutto superflua la compresenza fisica nello stesso luogo per coltivare e consentire un reale rapporto parentale, e ciò vale tanto per i nonni verso i nipoti quanto per i genitori verso figli che lavorano o studiano in altra città o addirittura all’estero.

Di certo le considerazioni esposte dalla III Sezione penale a distanza di tre anni dalla pronuncia possono senz’altro ritenersi del tutto condivisibili, sebbene in subiecta materia, come avvenuto in passato, successive modifiche sociali potrebbero portare a nuovi interventi interpretativi.

Quanto poi alla fase della liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, ciascuno dei familiari, prossimi congiunti della vittima, è titolare di un autonomo diritto per il conseguente risarcimento del danno morale che deve essere liquidato in rapporto al pregiudizio da ognuno individualmente patito per effetto dell’evento lesivo, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto, rimanendo, per contro, esclusa la possibilità per il giudice di procedere ad una determinazione complessiva ed unitaria del suddetto danno morale ed alla conseguente ripartizione dell’intero importo in modo automaticamente proporzionale tra tutti gli aventi diritto.

In ultimo, quanto alla quantificazione del danno risarcibile, risulta opportuno prendere come riferimento la sentenza n. 1361/2014 della Corte di Cassazione, laddove viene affermato che giunto al momento dell’individuazione e della liquidazione del danno, piuttosto che aderire aprioristicamente ora ad una ora ad altra teoria in materia di danni alla persona, ed offrire una risposta preconcetta e perciò ingiusta alla domanda che gli è rivolta, il giudice deve semplicemente confrontarsi con tutto il fatto concreto che ha davanti; deve tener conto, cioè, delle comprovate peculiarità delle vicende da valutare ed assicurare il corretto ed integrale risarcimento di tutte le lesioni degli interessi della persona, di natura non prettamente economica, protetti dall’ordinamento, riconducibili al torto che egli deve giudicare, e dei quali venga comprovata nel processo l’autonomia e la distinzione non meramente nominalistica dell’uno dagli altri. Deve, inoltre, adoperare nella liquidazione dei danni parametri di equità e ragionevolezza, confrontandosi con le tabelle di liquidazione utilizzate nell’ambito degli uffici giudiziari, le quali tuttavia offrono un parametro di valutazione standard che non può mai “confiscare” il potere-dovere del giudice di apprezzare (all’occorrenza) la concretezza dei danni in merito a ciascuna differente vicenda.

Ribadito che il criterio di liquidazione dei danni non patrimoniali sia l’equità intesa come valutazione congrua, ragionevole, proporzionale, ma anche rispettosa della parità di trattamento (secondo le direttrici tracciate da Cass. n.12408/2011), la Corte di Cassazione indica, quindi, nelle tabelle (giudiziali o normative) uno strumento idoneo all’attuazione della clausola generale sancita dall’art. 1226 c.c. L’uso delle tabelle impone però al giudice di procedere ad adeguata “personalizzazione” della liquidazione del danno non patrimoniale (controllabile in Cassazione solamente se non congruamente motivata). Sulla scia del precedente prima indicato, il mancato utilizzo delle tabelle di Milano integra violazione di legge, salvo adeguata motivazione. Secondo i giudici di legittimità, peraltro, anche le tabelle di Milano pongono “alcune problematiche interpretative e applicative”.

Tali criticità interpretative che possono determinare il concreto rischio di vedere non riconosciuti e valorizzati altri profili di analisi del danno, che potrebbero invece caratterizzare la complessità dei diritti lesi, in capo alle vittime di un fatto illecito, consentono di essere superate solo qualora sia permesso al giudice, a seconda dei casi specifici, di superare gli stringenti parametri tabellari.

Sotto questo profilo, la Suprema Corte ha saputo indicare la soluzione in numerose sentenze successive che hanno cristallizzato, appunto, il principio di “personalizzazione del danno” come già sopra richiamato.

Esemplificativa in via pregnante e assorbente, è stata sicuramente, a riguardo, la previsione della possibilità di superare il valore tabellare del danno biologico in determinati casi, approccio che per analogia può essere agevolmente e comprensibilmente esteso anche nella quantificazione del danno morale da lutto.

Inoltre, secondo la Corte, deve ritenersi consentito superare i limiti massimi tabellari in presenza di menomazioni e fatti non standard, come previsto espressamente nella stessa tabella milanese che, nei propri criteri orientativi, esclude la sua applicazione a fatti non comuni nella casistica delle lesioni.

Avv. Marco Frigo, Foro di Padova

Dott. Andrea Milanesi, Direttore Tecnico Studio 3A

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