Colpevole il datore di lavoro che non fornisce ai dipendenti strumenti idonei

Il datore di lavoro è tenuto a fornire sempre alle proprie maestranze tutto il necessario per operare in totale sicurezza, non solo i dispositivi di protezione individuale ma anche le attrezzature e gli strumenti adatti a svolgere la mansione assegnata.

A ribadire questo principio fondamentale, e ancora più impellente alla luce dei rigidi protocolli da rispettare per evitare il contagio da coronavirus nei luoghi di lavoro, la Corte di Cassazione, quarta sezione penale, con la sentenza n, 12157/20 del 14 aprile 2020 con la quale ha confermato la condanna di una imprenditrice per la caduta da una scala del tutto inadeguata di una propria dipendente, che pure aveva dichiarato di aver accusato un malore: uno degli infortuni più frequenti.

 

Imprenditrice condannata per la caduta di una dipendente da una scala

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello di Torino poi avevano già riconosciuto l’imputata colpevole del reato di lesioni colpose, con inosservanza della disciplina sulla prevenzione degli infortuni, ai danni di una propria lavoratrice la quale, mentre era impegnata in un’attività di inventario della merce posta nel magazzino del punto vendita in questione, utilizzando una scala a libro per visionare  gli articoli disposti sugli scaffali, era caduta all’indietro procurandosi la frattura della vertebra D 12 con conseguente periodo di malattia della durata di ben 184 giorni: quasi sei mesi.

I giudici contestano all’imputata di aver fornito uno strumento del tutto inadeguato

Alla titolare era stata contestata, oltre alla colpa generica, l’inosservanza di specifiche disposizioni del D.Lgs. n.81/2008, con particolare riferimento alla messa a disposizione alla dipendente di un inadeguato strumento di lavoro, sprovvisto di sistemi di appoggio e di aggancio, in relazione alla mancata previsione del rischio di cadute dall’alto, con particolare riferimento all’ambito di lavorazione in cui la lavoratrice era impegnata (l’inventario della merce) e alla mancata formazione e informazione della dipendente dei rischi connessi a tale attività.

Il giudice distrettuale aveva riconosciuto la totale inosservanza di tali regole cautelari da parte del datore di lavoro, attenendo esse non solo alla fase esecutiva della lavorazione e alla vigilanza della ricorrenza dei presidi antinfortunistici del caso, ma anche alla fase della programmazione della lavorazione e dell’individuazione dei rischi specifici connessi alla specifica attività che rientravano nell’ambito della sfera di competenze del soggetto investito del più elevato compito di indirizzo e di direzione dell‘attività produttiva.

Quanto poi alle singole contestazioni, nella sentenza di condanna si rilevava l’insufficienza e la inadeguatezza del presidio fornito alla lavoratrice, chiamata ad operare ad altezze, anche superiori a quelle in cui era stata impegnata nell’occasione dell’infortunio, dov’erano riposte e accatastate le merci, in assenza di punti di appoggio o di strumenti di contenimento, pur dovendo essa eseguire attività di controllo e di annotazione che non le lasciavano libere entrambe le mani, così da non potere reagire in caso di perdita di stabilità dello strumento o di un’oscillazione, pure indebita, della stessa lavoratrice.

 

Irrilevante la circostanza del malore

Inoltre, i giudici avevano escluso che si fosse realizzata un’interruzione del rapporto di causalità in ragione del malore che pure la dipendente aveva dichiarato di aver accusato prima di cadere, ritenendo che, in assenza della dimostrazione di una perdita di conoscenza, l’uso di un trabattello o di una scala munita di passamani o di piano di appoggio più stabile sarebbe stato in grado di evitare la caduta all’indietro della lavoratrice o comunque di consentirle di aggrapparsi ai sistemi di appoggio.

La datrice di lavoro ricorre per Cassazione

La datrice di lavoro ha quindi proposto ricorso per Cassazione con un unico motivo di doglianza deducendo violazione di legge e vizio motivazionale con specifico riferimento alla ritenuta sussistenza della prova del rapporto di causalità tra le omissioni contestate e l’evento lesivo occorso alla lavoratrice.

La ricorrente ha obiettato che solo nel corso dell’istruttoria dibattimentale era stato introdotto dal testimone, un ispettore del lavoro, lo specifico strumento antinfortunistico idoneo a preservare la lavoratrice da cadute dall’alto in relazione alla specifica lavorazione richiesta (il trabattello o scala cimiteriale), ma che anche un tale strumento, nell’ipotesi di un mancamento dell’operatrice in quota, non sarebbe stato idoneo a preservarla dalla caduta e quindi dal trauma che ne era conseguito, in quanto anch’esso era privo di protezione sul lato della schiena.

 

La Suprema Corte respinge il ricorso

Secondo la Cassazione, tuttavia, il ricorso è inammissibile, innanzitutto sotto il profilo formale perché, ricordano una volta di più gli Ermellini, compito del giudice di legittimità, allo stato della normativa vigente, “è quello di accertare la coerenza logica delle argomentazioni poste dal giudice di merito a sostegno della propria decisione, non già quello di stabilire se la stessa proponga la migliore ricostruzione dei fatti, laddove le censure proposte dalla ricorrente finiscono sostanzialmente per riproporre argomenti già esposti in sede di appello”.

Argomenti che tuttavia, secondo la Suprema Corte, “sono già stati vagliati e correttamente disattesi dalla Corte territoriale”. Entrando infatti anche e comunque nel merito, la Cassazione ritiene che la sentenza impugnata “non presenta alcuno dei vizi dedotti dai ricorrenti, atteso che l’articolata valutazione, da parte dei giudici di merito, degli elementi probatori acquisiti rende ampio conto delle ragioni che hanno indotto gli stessi giudici a ritenere la responsabilità della ricorrente. In particolare la Corte territoriale ha indicato una serie di elementi a sostegno del proprio convincimento in punto della sussistenza tanto del rapporto di causalità omissiva quanto dell’elemento soggettivo del reato”.

Confermato in pieno il giudizio della Corte territoriale

Sotto il profilo soggettivo è infatti indubbio, prosegue la Suprema Corte, che la lavoratrice “era intenta a svolgere un’attività di lavoro (in particolare di inventario di merce stipata su scaffali) con un mezzo, la scala a pioli, del tutto inadeguato in relazione alla specifica lavorazione che le veniva richiesta, con particolare riferimento alla esigenza di operare in sicurezza pur mantenendo impegnate una o entrambe le mani in attività di computo e di inventario, in presenza di strumento di lavoro privo di punti di appoggio, di balaustra o di mancorrenti e in assenza di una specifica previsione di tale lavorazione nel Documento di Valutazione dei Rischi”.

 

La caduta era tutt’altro che imprevedibile

A tale proposito, i giudici del Palazzaccio evidenziano che la lavoratrice era sì impegnata a operare ad un’altezza che giustificava l’impiego di scala a pioli, ma che tuttavia essa si trovava a lavorare a una “quota non minimale, in presenza di scaffali posti anche a due metri e mezzo da terra, stipati di numerosissimi articoli da inventariare, con modalità operative che giustificavano l’impegno delle mani di chi operava”. In questa prospettiva, sentenzia la Suprema Corte, “non si può certo ritenere imprevedibile la perdita di equilibrio dell’operatore dovuta all’oscillazione della scala ovvero al fatto del lavoratore nelle operazioni di inventario”.

Per concludere, dunque, i giudici d’appello, a detta della Cassazione, hanno del tutto correttamente riconosciuto “l’inidoneità di una scala a pioli per attività che imponevano al lavoratore di stazionare a lungo in quota per lo svolgimento di operazioni che imponevano l’impiego delle mani, richiedendo l’adozione di strumento di lavoro più consono che gli consentisse di stazionare su una superficie più ampia, ovvero di sorreggersi con punti laterali e frontali e ancora prima la esplicitazione nel DVR di una chiara procedura di lavoro, in presenza di palesi problemi di sicurezza, stabilità ed equilibrio del lavoratore impegnato.

La Cassazione, infine, concorda in pieno con i giudici territoriali anche quanto alla valutazione del rapporto di causalità, ribadendo che, anche in presenza di una perdita di equilibrio determinata da un malessere o da un mancamento non accompagnato da una perdita di conoscenza, “non risulterebbe interrotta la serie causale innescata dalla mancata adozione di idoneo strumento di lavoro. Qualora infatti fosse stata adottata una procedura di lavoro più accorta (mediante l’impegno di due persone), ovvero in presenza di strumento di lavoro più stabile o sicuro (scala cimiteriale), la caduta sarebbe stata evitata, in quanto la dipendente avrebbe potuto assicurarsi ai sistemi di appoggio della scala (balaustra, appoggi laterali) anche in ipotesi di improvviso mancamento, ovvero mediante la stabilità e la fermezza della scala garantita da altro lavoratore ai piedi della stessa”.

Ergo, condanna confermata.

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