La clausola claims made rende difficile l’esercizio del diritto dell’assicurato: accolto il ricorso dell’ospedale

Non è considerata vessatoria, ma la clausola claims made inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, pur non rendendo atipica la fattispecie negoziale, si rivela contraria all’art. 1341 c.c. e all’art. 2965 c.c. che commina la nullità dei patti con cui si stabiliscono decadenze che rendono eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio del diritto.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8894/20 depositata il 13 maggio 2020, è tornata sulla dibattuta questione delle clausole claims made dando ragione a una struttura ospedaliera che, in virtù di questa, si era vista negare la copertura assicurativa.

 

Cosa sono le clausole claims made

I contratti di assicurazione per la responsabilità civile, al di fuori delle ipotesi di assicurazione obbligatoria (come la Rc Auto), sono stati tradizionalmente modulati secondo lo schema loss occurrence, che fa riferimento al dettato del primo comma dell’art. 1917 cod. civ. In base a tale norma, l’assicuratore è obbligato a tenere indenne il contraente di quanto questi debba pagare a un terzo in conseguenza del fatto accaduto nel periodo di efficacia del contratto.

Nel corso del tempo, però, tale modello contrattuale ha progressivamente lasciato il passo alle clausole claims made (letteralmente, “a richiesta inoltrata”), che oggi caratterizzano gran parte dei rapporti assicurativi nel settore sanitario e professionale. Nelle polizze claims made il contraente è assicurato soltanto in relazione alle richieste di risarcimento che pervengano alla compagnia nel periodo di vigenza del contratto.

È evidente la differenza di tutela che intercorre tra i due modelli: in quello previsto dalla disciplina codicistica, la copertura permane senza limiti di tempo anche dopo la scadenza del contratto, se il fatto che dà origine alla richiesta di risarcimento sia avvenuto entro tale scadenza. Nel sistema claims made, invece, la compagnia assicuratrice non è tenuta a tenere indenne il contraente se la richiesta perviene dopo la scadenza del contratto, anche se l’evento che la origina si sia verificato nel periodo di vigenza del rapporto assicurativo.

 

Per la Cassazione non sono vessatorie, ma possono diventare non meritevoli di tutela

Il successo delle clausole claims made è dovuto alla maggiore facilità che un modello di questo tipo garantisce alle compagnie assicurative, in ordine alla gestione delle proprie risorse e alla previsione dei costi derivanti dagli impegni contrattuali. D’altro canto, sul piano pratico e su quello giuridico, ci si è spesso chiesti se una simile costruzione dell’assetto contrattuale non pregiudichi oltremisura gli interessi del contraente.

Sul punto è più volte intervenuta la Cassazione, che si è pronunciata per la generale ammissibilità di tali clausole, ritenendo sufficienti le tutele garantite all’assicurato dal relativo modello contrattuale, ma con delle precisazioni. In particolare, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 9140/2916, pur avendo confermato che la clausola claims made non è di per sé vessatoria, ha anche aggiunto che può diventare non meritevole di tutela quando comporti un significativo squilibrio tra le parti ai danni di una di esse, e questo accertamento è rimesso in concreto alla discrezionalità del giudice di merito.

 

Un ospedale citato in giudizio chiama l’assicurazione a manleva

Squilibrio che è stato ravvisato dalla Suprema Corte nel caso specifico, nel quale un ospedale era stato convenuto in giudizio dai genitori di un minore per il risarcimento dei danni subiti da quest’ultimo nel corso di un ricovero presso la struttura. L’Azienda ospedaliera, ritenuta responsabile del fatto denunciato, aveva chiesto, sin dalla sua costituzione in giudizio, di essere manlevata dalla compagnia di assicurazione, la quale aveva tuttavia eccepito che il contratto conteneva una clausola claims made, che imponeva di denunciare il sinistro entro dodici mesi dalla cessazione di efficacia, e che quel termine era in realtà inutilmente trascorso.

Richiesta respinta dai giudici per la clausola claims made “eccepita” dalla compagnia

Il giudice di primo grado aveva ritenuto tale clausola non vessatoria, e dunque legittimo il rifiuto da parte della società di tenere indenne l’ospedale. Il Giudice di appello aveva confermato questo giudizio, aggiungendo che, oltre a non essere vessatoria, la clausola claims made cosi inserita, perseguiva interessi meritevoli di considerazione, o meglio, non rendeva il contratto immeritevole di tutela, e applicando proprio la già ricordata decisione a Sezioni Unite della Cassazione. L’accertamento raccomandato comunque dagli Ermellini, secondo la Corte d’appello, era stato correttamente effettuato dal giudice di primo grado.

Il ricorso per Cassazione della struttura sanitaria

Contro quest’ultima sentenza la struttura sanitaria ha quindi proposto ricorso per Cassazione, che ha vagliato in particolare uno degli aspetti della clausola claims made la quale fa dipendere la prestazione dell’assicurazione non solo dall’evento dedotto in contratto, ma altresì da un ulteriore evento incerto, quale è la richiesta di risarcimento del terzo danneggiato: se infatti questa ultima non è tempestiva, non potrà esserlo neanche quella dell’assicurato.

 

L’assicurato è condizionato dalla tempestività della richiesta di risarcimento del danneggiato

La copertura assicurativa, infatti, decade se il terzo danneggiato decide di formulare la richiesta di risarcimento trascorsi dodici mesi dalla scadenza del contratto. Ossia: la tempestività della richiesta di manleva dipende dalla tempestività della richiesta di risarcimento da parte del terzo, e questa dipendenza pone l’assicurato in una condizione di ingiustificato svantaggio nei confronti dell’assicuratore, creando una decadenza che il contraente non può evitare.

Nel caso in esame, le parti avevano arricchito il tipo contrattuale (assicurazione contro i danni) con la previsione di una decadenza a carico dell’assicurato, nei termini sopra ricordati. Era pertanto sufficiente chiedersi se tale clausola fosse lecita in sé e per sé, alla luce del criterio di cui art. 1322, comma 1, cioè se si mantenesse nei limiti imposti dalla legge.

La clausola, come ricordato, pone una decadenza a carico dell’assicurato non dipendente da una sua condotta: l’assicurato può fare denuncia dell’evento nei 12 mesi dalla cessazione del contratto solo se abbia ricevuto in quei termini temporali la richiesta di risarcimento del danno, condizione che ovviamente dipende esclusivamente dal terzo danneggiato.

 

La clausola rende difficile l’esercizio del diritto dell’assicurato

In tali termini essa contrasta con disposizioni imperative di legge, non solo con l’art. 1341 c.c., che vieta, se non sottoscritte, le clausole vessatorie, e che tra queste annovera espressamente quelle che impongono decadenze, ma altresì con l’art. 2965 c.c., che commina la nullità dei patti con cui si stabiliscono decadenze che rendono eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio del diritto.

In effetti, il termine apposto all’escussione dell’assicurazione, ossia al diritto di far valere la prestazione assicurativa a carico dell’assicuratore, è un termine di decadenza, che è nullo proprio perché rende, nella fattispecie, eccessivamente difficile l’esercizio del diritto dell’assicurato.

La difficoltà di esercitare il diritto – hanno osservato gli Ermellini – non è ovviamente, come ritenuto dal giudice di merito, da valutarsi in termini temporali, nel senso che dodici mesi sono sufficienti per denunciare il sinistro all’assicurazione, ma va intesa anche nei termini della concreta possibilità di evitare la decadenza attraverso una propria condotta, possibilità che è del tutto esclusa o comunque assai ridotta se l’assicurato può fare denuncia di sinistro solo in dipendenza dalla condotta del terzo, sulla quale ovviamente non può influire.

Un cosa, infatti è prevedere una decadenza nel termine di dodici mesi dalla richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato, un’altra è fissare la scadenza di dodici mesi a partire dalla scadenza del contratto, prescindendo dunque dalla circostanza che in tale lasso di tempo può non pervenire alcuna richiesta di risarcimento, che è il presupposto perché l’assicurato si rivolga all’assicuratore, ed estendendo peraltro la decadenza al caso in cui una richiesta di risarcimento pervenga all’assicurato, ma oltre il termine di efficacia del contratto. Così che l’assicurato può evitare la decadenza a condizione non tanto che il terzo danneggiato faccia richiesta di risarcimento entro dodici mesi dalla cessazione degli effetti del contratto, ma che la faccia prima che si verifichi tale cessazione.

Ricorso accolto

In conclusione, le clausole che rendono difficile l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.) sono anche quelle che prescindono dalla diligenza della parte, e che fanno dipendere quell’esercizio da una condotta del terzo, autonoma e non calcolabile.

Insomma, poiché la denuncia del “sinistro” dipende dalla richiesta di risarcimento avanzata dal danneggiato verso l’assicurato, prima del quale quest’ultimo non ha interesse ad avvisare la sua assicurazione, l’onere (derivante dalla polizza) posto a suo carico risulta di difficile osservanza, potendo questi adempiere solo se ha ricevuto la richiesta non solo entro 12 mesi dalla scadenza del contratto, ma nell’arco temporale dell’anno di sua validità. Per queste ragioni, il ricorso è stato accolto.

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