DAL “CONTATTO SOCIALE” ALL’INVERSIONE DELL’ONERE DELLA PROVA

L’evoluzione della responsabilità medica dall’applicazione dell’art. 2043 c.c. al contratto è caratterizzata da un percorso quasi esclusivamente giurisprudenziale di regole rivolte alla tutela del paziente che lamenti di non aver ottenuto dall’intervento sanitario il risultato auspicato.

L’attuale orientamento si caratterizza per l’abbandono di parametri decisionali che in passato avevano dato origine, nel “sottosistema” della responsabilità medica, a un insieme di regole che avevano messo in dubbio la sistemica distinzione tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale.

In giurisprudenza, in particolare nelle sentenze delle sezioni unite della Cassazione, si è affermato nel tempo un orientamento diretto ad estendere l’applicazione delle regole della responsabilità contrattuale, più idonee ad assicurare la massima tutela per il danneggiato. Significativa, al riguardo, la sentenza delle sezioni unite n. 26972/2008 relativa all’ambito di applicazione del danno non patrimoniale. Cristallina la motivazione nelle parte in cui afferma: “se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni”.

Pertanto all’odierno approccio in tema di responsabilità medica si è arrivati gradualmente. Il primo passo è consistito nell’aver ricondotto il rapporto del paziente con la struttura pubblica o privata al contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria, contratto misto o complesso, cui si applicano le norme del contratto d’opera professionale solo qualora compatibili (Cass. sez. un. n. 9556/2002).

Il contratto di spedalità genera l’obbligo della struttura a fornire prestazioni che sono poste in essere dai medici e dal personale dipendente. Per tali prestazioni la struttura è responsabile indirettamente in forza dell’art. 1228 c.c. Risulta irrilevante il rapporto che lega il medico alla struttura. Anche in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, si ritiene che in ogni caso sussista un collegamento tra la prestazione del medico e l’organizzazione aziendale dell’ospedale. La struttura e il medico rispondono nei confronti del paziente danneggiato in solido.

La struttura pubblica o privata è inoltre responsabile direttamente ex art. 1218 c.c. per i danni derivanti da disfunzioni dell’organizzazione (carenza strutturale, difetto di organizzazione anche relativamente alla sicurezza e alla manutenzione delle attrezzature e dei macchinari, infezioni ospedaliere, sterilizzazione della sala operatoria, omessa adozione dei sistemi di sicurezza, vigilanza e custodia dei pazienti). Si reputa che la responsabilità contrattuale della struttura per inefficienza dei servizi e delle attrezzature si basi sul dovere di comportarsi secondo le regole della correttezza e della buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Il medico deve informare il paziente a rischio sulla efficienza organizzativa della struttura ed, eventualmente, consigliare il ricovero in altra struttura che dia maggiori garanzie di sicurezza. Le leggi regionali di accreditamento che stabiliscono gli standard di sicurezza e qualità possono essere validi criteri di riferimento.

Al riguardo, si precisa che la prima decisione sulla responsabilità per difetto di organizzazione risale al 1995 (v. Trib. Monza 7 giugno 1995; v., Cass. 16 maggio 2000 n. 6318 ; Trib. Brescia 28/12/2004).

Si afferma pertanto l’accoglimento giurisprudenziale della teoria del cosiddetto “contatto sociale” come fonte dell’obbligazione del medico dipendente e conseguente superamento della responsabilità extracontrattuale, circostanza che ha segnato una svolta decisiva verso la omogeneizzazione della responsabilità medica.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza più risalenti nel tempo, si riteneva che, con l’accettazione del paziente, si instaurasse un rapporto contrattuale soltanto con l’ente. Il medico invero, estraneo al contratto, rispondeva per i danni causati dal trattamento terapeutico secondo le regole della responsabilità aquiliana. La Cassazione, con la sentenza n. 2750/1988 (seguita da Cass. 2428/1990), invertiva l’orientamento, affermando che la responsabilità dell’ente e la responsabilità del medico dipendente hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, e pertanto sono entrambi responsabili secondo le regole contrattuali di tipo professionale. Tale orientamento è culminato nella sentenza della Cass. n. 589/1999, che ha giustificato l’applicabilità delle regole della responsabilità contrattuale ai medici dipendenti sulla base del c.d. “contatto sociale”. Il paziente, in assenza di contratto, non potrà pretendere la prestazione sanitaria dal medico, ma se il medico in ogni caso interviene, l’esercizio della sua attività non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto.

Il superamento del sotto sistema della responsabilità medica come insieme di regole tra responsabilità contrattuale ed aquiliana, è stato altresì favorito dall’esplicito ripudio giurisprudenziale della distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazioni di risultato. La sentenza della Cassazione Sez. un. 15781/2005, in tema di responsabilità del progettista, è la prima importante sentenza che ha preso posizione sulla storica distinzione, ma sono da menzionare, in tema di responsabilità medica, anche Cass. 8826/2007 e Cass. Sez. un. 577/2008.

La classica distinzione, utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, aveva lasciato sopravvivere, per le obbligazioni di mezzi o di diligenza, la regola di responsabilità basata sulla colpa, analoga a quella dell’art. 2043 c.c., e il conseguente onere probatorio a carico del paziente insoddisfatto.

Al fine di mantenere la coerenza del sistema, non essendo giustificabile la compresenza di regole diverse di responsabilità, già da tempo, in dottrina, si contestava la validità della distinzione, dimostrandosi invece che in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento diligente del debitore ex art. 1176 c.c., sia di un risultato utile per il creditore, anche se i due momenti si presentano in proporzione variabile a seconda del contenuto dell’obbligazione.

Eliminata la distinzione delle due specie di obbligazione, si afferma che la responsabilità per inadempimento va regolata da una sola norma, quella contenuta nell’art. 1218 c.c., con il conseguente onere della prova liberatoria a carico del debitore.

Considerando l’obbligazione medica una tipica obbligazione di mezzi, la regola di base era la seguente: il paziente-creditore doveva provare la colpa, il danno e il nesso di causalità materiale; incombeva al sanitario provare l’impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della prestazione. Con riferimento al rapporto tra prestazione dovuta e complessità della fattispecie alla regola di base furono affiancate altre due regole.

La prima prevedeva che, per gli atti medici che avessero richiesto la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, con riferimento alla sola imperizia (art. 2236c.c.), il medico doveva provare la speciale difficoltà, mentre al paziente toccava la prova del dolo o della colpa grave.

La seconda comportava che per gli atti medici di facile esecuzione o di routine dai quali fosse derivato un esito lesivo, la negligenza del medico veniva presunta per cui il paziente creditore poteva limitarsi a provare che l’intervento era di quelli il cui esito positivo era considerato dalla scienza medica sicuro, con una probabilità prossima al 100%, mentre rimaneva a carico del medico debitore la prova che la prestazione era stata diligente e che il risultato infausto era dovuto a un fatto a lui non imputabile. La prima decisione in tal senso risale alla sentenza della Cassazione n. 6141/1978.
Sulla questione del nesso di causalità si discuteva: in alcune sentenze si affermava che la presunzione riguardava solo la negligenza medica, per cui il nesso di causalità materiale doveva essere oggetto di prova a parte a carico dell’attore; in altre sentenze si reputava che la presunzione si estendesse anche al nesso causale.

Tuttavia, sarà l’affermazione del principio della cosiddetta vicinanza della prova e del nuovo assetto della ripartizione dell’onere della prova in caso di inadempimento o di inesatto adempimento a dare l’avvio, nei primissimi anni Duemila, a un nuovo corso della responsabilità civile medica. A differenza di quanto sostenuto da dottrina e giurisprudenza in applicazione dell’art 2967 c.c., le sezioni unite reputano che “anche nel caso in cui sia dedotto l’inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.

Una prima applicazione di tale regola in campo medico rileva nella sentenza della Cassazione n. 9471/2004 dove, intesa l’obbligazione del medico come obbligazione di risultato, la Corte reputa che l’attore, il paziente danneggiato, possa limitarsi alla mera allegazione dei profili di colpa medica (l’inadempimento del medico) posti a fondamento dell’azione, e che invece tocchi al medico la prova dell’incolpevolezza dell’inadempimento, ossia dell’impossibilità non imputabile. L’allegazione è intesa nella sentenza come “contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quello che si ritengano essere in un dato momento storico le cognizioni ordinarie di un non professionista”: quindi, generica contestazione della colpa per categorie generali (omessa informazione dei rischi, adozione di tecniche non sperimentate in luogo di protocolli collaudati, negligenza ).

Ricorre al principio della vicinanza della prova anche la Cassazione con la sentenza 10297/2004, nella quale si ribadisce che quella del medico e della struttura è una obbligazione di mezzi per cui l’inadempimento consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, mentre il mancato raggiungimento del risultato può costituire danno consequenziale.

Inoltre, in tema di onere della prova, si reputa che non ha senso distinguere tra interventi di facile esecuzione e prestazioni implicanti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà , in quanto l’allocazione del rischio non può dipendere dalla maggiore o minore difficoltà della prestazione.

Il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e/o il “contatto sociale”, l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico dell’obbligato medico la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La principale novità della decisione sta nell’abbandono della distinzione tra interventi facili e difficili .

Superato il sistema di regole che avevano governato la responsabilità medica fino alla fine del secolo, proprio con riferimento al superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazioni di risultato, a pochi mesi di distanza vengono pubblicate due sentenze per ovviare alla difficoltà di individuare il “risultato utile” del trattamento, cui fa affidamento il paziente, e per stabilire quando la negligenza è causa del danno e fonte di responsabilità.

Premesso che l’inadempimento medico consiste nella violazione del diritto del paziente alla conformità ai canoni della perizia professionale del comportamento del debitore (i canoni della perizia sono indicati dai protocolli scientifici, dalle linee guida che, accreditati da società scientifiche, diventano PDT – Percorsi Diagnostico-Terapeutici), la Suprema Corte con la sentenza n. 8826/2007 reputa che il medico e l’ente siano contrattualmente impegnati a realizzare il risultato dovuto, ovvero il risultato conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, all’abilità tecnica del medico e alla capacità tecnico-organizzativa della struttura. Il risultato dovuto non è quello netto e predefinito stabilito al di fuori del rapporto negoziale, ma solo quello che si modella caso per caso in relazione alle peculiarità della fattispecie concreta. Anche “lo stato di inalterazione e di non risolutività” del difetto, per i giudici di legittimità, è indice sintomatico dell’inadempimento del medico. Inoltre, si reputa irrilevante se la prestazione sia di facile esecuzione o se implichi la soluzione di problemi di speciale difficoltà, distinzione che secondo la Corte dovrebbe valere solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa del sanitario. In definitiva, il paziente deve provare il contratto e/o il contatto sociale e allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza. Al debitore medico, presunta la colpa, incombe l’onere di provare, sulla base della vicinanza della prova, che la prestazione è stata esattamente eseguita o che l’inesattezza dipende da causa a lui non imputabile.

E’ stato osservato che tale sentenza mette sul tappeto due questioni: a) trasferisce impropriamente l’uso del dato probabilistico dall’indagine sul nesso causale all’indagine sul risultato ottenuto; b) non dà soluzione ai casi in cui non c’è evidenza chiara di cosa sia normale attendersi dall’attività del medico.

Seguiranno tuttavia alcune sentenze reazionarie, tendenti a ridurre l’incisività del nuovo orientamento, in ogni caso superate da interventi delle sezioni unite con una serie di sentenze. In particolare, sul problema della prova si richiama la Cass. Sez. un. 577/2008: “il paziente danneggiato deve provare il contratto o il contatto sociale e il danno (l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di una affezione nuova) e allegare un inadempimento qualificato, cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”. Le sezioni unite pongono l’accento sul nesso di causalità per cui l’allegazione del debitore non dovrebbe attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma solo a quello che costituisce astrattamente causa o concausa efficiente del danno. Presunto il nesso eziologico, competerà al medico convenuto dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno. Risulta di tutta evidenza che tale assetto dei carichi probatori è tutto sbilanciato a carico del medico, con conseguente rischio del collasso del sistema assicurativo e dell’aumento della c.d. medicina difensiva. Va comunque sottolineato che il passaggio dalla responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) alla responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) comporta già di per sé una modifica in ordine all’onere della prova: nel primo caso l’onere della prova della colpa del danno e del nesso di causalità è a carico del danneggiato, con la conseguenza che le cause ignote rimangono a suo carico; nella responsabilità contrattuale le posizioni sono rovesciate perché spetta al debitore provare i fatti estintivi dell’inadempimento, e se tale prova non riesce, le cause ignote saranno addebitate al debitore inadempiente. Le regole sull’onere della prova, tra l’altro, non possono essere modificate dalla giurisprudenza, la quale invece può fornire soltanto moduli argomentativi per favorire un approccio più concreto e realistico al problema dell’individuazione dei temi di prova posti a carico di debitore e creditore.

E’ appena il caso di ricordare che “l’onere della prova non attiene alla formazione del convincimento del giudice, bensì a una regola di giudizio che si propone qualora la fase di valutazione delle prove si sia chiusa con esito negativo, lasciando il giudice nell’incertezza sui fatti che devono costituire l’oggetto della decisione”.

Tuttavia, la rigida applicazione delle regole contrattuali alla responsabilità medica si espone a non poche riserve. E’ auspicabile, infatti, che la giurisprudenza ridimensioni tale intransigente approccio e che si ritorni a modelli più flessibili sacrificando la coerenza del sistema.

Quanto sopra, cercando di salvare i giusti diritti del danneggiato anche in termini di favore processuale e di dimostrazione del danno, senza determinare per la collettività, come sopra evidenziato, un aggravio di costi assicurativi, oltre che, fenomeno e reazione ancora più grave, ingenerare una incontrollabile diffusione di medicina difensiva e di rifiuto da parte del personale sanitario, circostanza che risulterebbe nel suo complesso, per i pazienti, addirittura peggiore dell’errore medico.

Dott. Andrea Milanesi

Direttore Tecnico di Studio 3A

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