Per il reato di omissione di soccorso bisogna provare la “consapevolezza” dell’imputato

Il reato di mancata prestazione di assistenza in caso di sinistro implica una condotta diversa rispetto a quella del reato di fuga, in quanto non è sufficiente la consapevolezza che dall’incidente possano essere derivate conseguenze per le persone, ma occorre che tale pericolo appaia essersi concretizzato in effettive lesioni dell’integrità fisica.

Con la rilevante sentenza n. 37145/19 depositata il 5 settembre 2019, la Corte di Cassazione ha chiarito una serie di aspetti relativi all’accertamento del dolo nell’ipotesi di omissione di soccorso dopo un incidente, deliberando definitivamente circa un sinistro particolare avvenuto a Milano il 20 settembre del 2014, intorno alla mezzanotte.

 

Una dinamica particolare

Un giovane, in preda ai fumi dell’alcool, dopo aver gettato delle bottiglie a terra, si era sdraiato volontariamente in mezzo alla strada ed era stato investito da un Suv che gli era passato sopra salvo poi proseguire la sua marcia: il ragazzo aveva riportato fratture costali, delle ossa nasali ed altre ferite nella zona posteriore-sinistra del tronco. Il conducente era stato presto individuato e, a sua discolpa, aveva asserito di non essersi minimamente accorto di aver investito qualcuno quella notte.

Il tribunale di Milano tuttavia non gli aveva creduto dichiarandolo responsabile dei reati di cui all’art. 189, commi 1, 6 7, cod. strada, per essersi allontanato senza prestare assistenza alla persona ferita, dopo averla investita con la propria autovettura: sentenza confermata dalla Corte d’Appello meneghina nel novembre del 2018.

 

Il ricorso in Cassazione

L’imputato ha proposto ricorso per cassazione lamentando:

  • l’inammissibilità dell‘appello incidentale promosso dal Procuratore generale per intervenuta modifica dell’art. 595 cod. proc. pen. a seguito del d.lgs. n. 11/2018;
  • omessa motivazione sulla richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.;
  • vizio di motivazione in punto di responsabilità, dato che i giudici di appello avevano rigettato la ricostruzione difensiva, basata sulla mancata percezione da parte dell’imputato di essere passato, alla guida del proprio veicolo, sopra la persona distesa a terra.

Le cosiddette “spolverature” riscontrate sotto il veicolo avrebbero dimostrato che non vi fu nessun arrotamento, che altrimenti avrebbe provocato la morte dell’uomo, ma tutt’al più un passaggio del corpo tra le ruote del veicolo.

La sentenza sarebbe stata  contraddittoria per aver individuato quale elemento oggettivo del passaggio sul corpo le “spolverature” sul fondo del veicolo ed illogica laddove affermava che ciò dimostrerebbe l’elemento soggettivo del reato.

 

La Suprema Corte accoglie le doglianze

Ebbene, secondo gli Ermellini è fondato il terzo motivo in punto di responsabilità, con particolare riguardo alla carenza ed illogicità della motivazione sull’elemento soggettivo (dolo) dei reati ascritti all’imputato.

E’ noto che in tema di circolazione stradale, il reato di mancata prestazione dell’assistenza occorrente in caso di incidente, di cui all’art. 189, comma settimo, cod. strada, implica una condotta ulteriore e diversa rispetto a quella del reato di fuga, previsto dal comma sesto del predetto art. 189, non essendo sufficiente la consapevolezza che dall’incidente possano essere derivate conseguenze per le persone, occorrendo invece che un tale pericolo appaia essersi concretizzato, almeno sotto il profilo del dolo eventuale, in effettive lesioni dell’integrità fisica” chiarisce la sentenza.

Con particolare riferimento al reato di fuga previsto dall’art. 189, comma sesto, cod. strada, l’accertamento del dolo, necessario anche se esso sia di tipo eventuale, va compiuto in relazione alle circostanze concretamente rappresentate e percepite dall’agente al momento della condotta, laddove esse siano univocamente indicative del verificarsi di un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone”.

Premesso ciò, i giudici del Palazzaccio sostengono che la motivazione della sentenza impugnata non soddisfa tali requisiti in punto di accertamento del dolo, “in quanto non ha esplicitato sulla base di quale massima di esperienza si fondi l’asserzione secondo cui sarebbe inverosimile che l’autista non abbia percepito l’urto con la persona investita, avuto riguardo alle peculiari circostanze che hanno caratterizzato l’incidente in questione”.

 

La Corte di merito non ha provato la “consapevolezza” dell’automobilista

Appurata l’oggettività dell’investimento, della “fuga” e dell’omessa assistenza, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza dei reati a carico del prevenuto, “liquidando la tesi difensiva in ordine alla mancata percezione dell’urto da parte del conducente – decisiva ai fini della sussistenza del dolo -, ragionando in termini di “inverosimiglianza” di una simile ricostruzione, senza nulla aggiungere di specifico per corroborare tale valutazione, al di là dell’avvenuto passaggio del veicolo sul corpo della vittima; e senza neanche accennare – quanto alla consapevolezza del fatto da parte del conducente – alle peculiari modalità che hanno caratterizzato l’incidente, trattandosi del repentino investimento, di notte, di una persona sdraiata in mezzo alla strada, da parte di un Suv di grosse dimensioni”.

In tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d’esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova “solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile” ricorda la Suprema Corte.

Nel caso in esame, invece,” la Corte territoriale non ha contrastato l’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa con una ricostruzione fondata su dati indiziari o massime d’esperienza idonee a corroborare la tesi che l’imputato avesse avuto sicura contezza dell’urto; e ciò nonostante la tesi difensiva fosse supportata dalle anomale circostanze caratterizzanti l’investimento in questione”.

La Cassazione conclude ribadendo che la regola di giudizio che richiede l’accertamento della sussistenza del reato “al là di ogni ragionevole dubbio” implica che, “in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi accusatoria e sia motivatamente esclusa la plausibilità della tesi.

Tale puntuale individuazione degli elementi di conferma dell’ipotesi accusatoria, in punto di dolo, non risulta adempiuta adeguatamente nel percorso logico-motivazionale della sentenza impugnata”, che pertanto è stata annullata con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.

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