Non c’è responsabilità del lavoratore infortunato laddove il sistema di sicurezza è lacunoso

Troppo spesso i datori di lavoro cercano di scaricare tutte le responsabilità degli infortuni sul comportamento dei loro lavoratori, ma quasi sempre a monte c’è qualche violazione delle norme sulla sicurezza che, se rispettate, avrebbero impedito il verificarsi dell’incidente.

Con due sentenze “ravvicinate” su due casi distinti, depositate peraltro lo stesso giorno, il 15 aprile 2019, la 16.216/19 e la 16.228/19, la Corte di Cassazione, quarta sezione Penale, si è espressa con decisione sulla questione.

Gravissimo infortunio alla mano

Con la prima la Suprema Corte ha affrontato la vicenda di un operaio con mansioni di casaro che aveva subito un grave infortunio nel 2007: il lavoratore, addetto alla macchina spezzatrice destinata alla lavorazione della mozzarella, a fine turno, nel provvedere al recupero dei residui di lavorazione della pasta filata da reimmettere nel macchinario, per completare il confezionamento delle ultime mozzarelle, aveva inserito la mano nella cavità ad imbuto dell’apparecchiatura, dalla quale era stata tolta la griglia di protezione (previa neutralizzazione del dispositivo di blocco in dotazione, che ne produce il fermo allorquando l’apposito sensore rilevi la rimozione della griglia), rimanendo agganciato dalle coclee presenti sul fondo dell’imbuto.

La mano gli era stata praticamente tranciata con lesioni gravissime, consistite nello schiacciamento dell’avambraccio sinistro, fratture multiple con amputazione del quinto dito della mano sinistra e parziale amputazione dell’avambraccio omolaterale e la perdita funzionale della mano.

 

Condannato il datore di lavoro

Il datore di lavoro dell’operaio, con sentenza dell’8 novembre 2017, era stato riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 590, cod. pen. e condannato per avere causato, nella sua qualità di amministratore del caseificio, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia e violazione della disciplina sulla prevenzione degli infortuni su lavoro, le lesioni al suo dipendente.

La sentenza di secondo grado, considerata non contestata la materiale modalità di accadimento, ha ribadito la penale responsabilità dell’imputato, riesaminando, alla luce delle prove raccolte, la sussistenza delle violazioni contestate al medesimo, a cui ha rimproverato la mancata predisposizione del documento di valutazione dei rischi, l’omessa formazione ed informazione dei lavoratori e l’omessa vigilanza sull’utilizzo improprio delle attrezzature produttive.

 

Il ricorso per Cassazione

Il titolare ha dunque presentato ricorso in cassazione lamentando soprattutto il fatto che la Corte territoriale non avrebbe ritenuto “esorbitante ed abnorme” – e quindi interruttivo del nesso di causalità – il comportamento del lavoratore che, al fine di concludere rapidamente il turno di lavoro, nell’operare la pulizia del macchinario, in spregio delle direttive ricevute, avrebbe rimosso la griglia di protezione del macchinario, destinata a proteggere i lavoratori, infilando deliberatamente la mano nell’imbuto, dal quale veniva trascinato.

Ma secondo gli Ermellini il ricorso va dichiarato inammissibile.

La Suprema Corte evidenza innanzitutto come i giudici precedenti, pur non essendo riusciti ad accertare chi tra l’operaio e il datore di lavoro avesse rimosso la griglia di protezione per rendere più veloce la lavorazione ed evitare i fermi macchina che impedivano la conservazione della pasta filata, “hanno tuttavia escluso l’eccezionalità del comportamento del dipendente, equiparando l’ipotesi della rimozione da parte del lavoratore a quella da parte del datore di lavoro ed evidenziando come l’attività svolta dal lavoratore rientrasse nell’ambito delle mansioni affidategli, elemento che impedisce di qualificare il suo comportamento come abnorme.

 

Quando si può parlare di comportamento “abnorme”

Al riguardo la Cassazione ricorda che la nozione di abnormità va ricondotta ad un “comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli – e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro – o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.”

In questo caso, invece, come chiarito dai giudici di merito, era l’esigenza di rendere più rapida la lavorazione ad avere reso necessaria la rimozione della griglia.

“Che ciò sia accaduto per non compromettere la tenuta della pasta filata, come sostengono la persona offesa ed un testimone, o dalla volontà del lavoratore di terminare rapidamente il turno di lavoro – conclude la sentenza -, ciò non muta la responsabilità del datore di lavoro che ha omesso di vigilare efficacemente sul corretto funzionamento del macchinario e sul dovuto utilizzo dei dispositivi di sicurezza, da parte dei prestatori di lavoro. Né può valere ad escludere detta responsabilità il fatto che l’operaio fosse un lavoratore esperto.

Il rigoroso ragionamento della motivazione della sentenza impugnata non viene, dunque, scalfito dalle censure che gli vengono mosse, che, in qualche modo, denunciando il difetto della contraddittorietà invertono l’inferenza logica, pretendendo di ricavare dall’asserita abnormità del comportamento del lavoratore la sufficienza dei sistemi di sicurezza approntati dal datore di lavoro, che, invece, come ben ha chiarito la Corte territoriale, non erano conformi alle disposizioni antinfortunistiche”.

 

La seconda sentenza su un infortunio questa volta edile

Nell’altra sentenza, la n. 16228, la Cassazione ha affrontato un altro infortunio grave occorso nel 2010 e in seguito al quale un operaio edile aveva riportato una prognosi di ben 170 giorni. Il lavoratore era impegnato in un cantiere dell’impresa per la quale lavorava, dedicato alla realizzazione di un parcheggio sotterraneo.

Mentre si stavano effettuando lavori di scavo per la realizzazione delle fondamenta, la perforatrice subiva un guasto: si era staccata una catena anteriore.

Veniva richiesto l’intervento del manutentore che, su disposizioni del direttore di cantiere, veniva affiancato da un operaio, che poi appunto si sarebbe infortunato e che doveva reperire una tavola di legno per facilitare le operazioni di riparazione e trasportare la nuova catena.

L’operaio poi rimaneva poi pressi della perforatrice sul lato opposto a quello in cui manovrava il manutentore, con la schiena appoggiata al gruppo morse, al centro tra i due cingoli e veniva investito al torace dalla testa di rotazione, di 500 kg di peso, che, liberata da una delle catene rotte, scivolava per forza di gravità.

 

Il procedimento penale

L’istruttoria dibattimentale aveva accertato che il “mast” era stato messo in posizione inclinata, e che, sbullonata la testa di rotazione, quest’ultima scivolava per gravità lungo lo stesso mast andando a colpire l’operaio, nonostante il manuale d’uso e manutenzione della macchina prevedesse, in caso di operazioni di sostituzione della catena usurata o rotta, il posizionamento della macchina con il mast in orizzontale, la movimentazione della testa fino alla fine corsa posteriore e il blocco del carrello della testa sul mast con la staffatura, allo scopo di prevenire proprio che con la forza di gravità l’organo lavoratore potesse scorrere in discesa sul mast.

Risultava inoltre che nel Pos redatto dalla società era prescritto che gli interventi di manutenzione della macchina dovevano essere preceduti dal saldo bloccaggio delle parti che potevano entrare in movimento anche senza forza motrice e, in ogni caso, osservando le indicazioni del manuale d’uso e di manutenzione della macchina stessa.

Per questa ragione, la Corte d’Appello di Brescia, confermando peraltro la sentenza del Tribunale di Brescia e le statuizioni civili, aveva condannato a sei mesi di reclusione il responsabile del cantiere e il manutentore per colpa consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia e violazione delle norme di prevenzione; in particolare, il primo aveva omesso di sovraintendere e vigilare sulla corretta conduzione da parte del manutentore dell’intervento di riparazione della perforatrice, in modo tale che tutti gli elementi dell’impianto risultassero bloccati contro spostamenti e movimenti pericolosi, e inoltre per aver disposto l’accesso all’impianto, nel corso della manutenzione e in ausilio della stessa, dell’operaio che non era stato informato sui rischi né formato per le procedure di intervento sicure; il secondo per non aver adottato le misure tecniche ed organizzative necessarie ad assicurare il fermo e il blocco assoluto degli elementi pericolosi passibili di entrare in movimento in corso e a causa dello stesso intervenuto di manutenzione, secondo quanto indicato nel manuale d’uso e manutenzione della macchina, con specifico riferimento al posizionamento orizzontale del mast della macchina e al blocco del carrello della testa sul mast, mediante staffatura o altra misura idonea.

 

Sentenza della Cassazione

I due imputati hanno quindi ricorso per Cassazione, deducendo una serie di motivi, uno dei quali asseriva la tesi che il lavoratore si sarebbe posto “sua sponte” in una posizione di rischio attraverso un comportamento abnorme che non si sarebbe potuto addebitare alla condotta causale dei due responsabili. Ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

La Cassazione ribadisce che “l’interruzione del nesso di condizionamento, a causa del comportamento imprudente del lavoratore, da solo sufficiente a determinare l’evento, secondo i principi giuridici enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza richiede che la condotta si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso.

Tale comportamento è «interruttivo» non perché «eccezionale» ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. Ma la giurisprudenza di legittimità è ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l’infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle criticità”.

La Suprema Corte, infatti, ricorda che le disposizioni antinfortunistiche perseguono “il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l’area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli”.

 

La condotta del lavoratore infortunato

Nel caso di specie la Corte Territoriale ha dunque fatto corretta e coerente applicazione di questi principi giuridici, evidenziando che la condotta del lavoratore infortunato, che era stato comandato ad aiutare il manutentore dal direttore di cantiere, non era stata né imprevedibile né esorbitante e non poteva perciò fornire alcuna giustificazione ai due imputati, titolari delle rispettive posizioni di garanzia, che avevano omesso di svolgere i compiti connessi all’adeguata osservanza delle misure di sicurezza, di vigilanza e formazione oltre che di verifica puntuale del rispetto delle norme di prevenzioni degli infortuni.

Tanto più che, come detto, il lavoratore non aveva svolto mai quel compito, era un operaio senza alcuna formazione in materia di macchine operatrici e riparazione e, come tale, non si darebbe dovuto adibirlo come assistente alle operazioni di manutenzione che lo avrebbero comunque messo in contatto con un macchinario così potenzialmente rischioso e complesso, non avendo il bagaglio tecnico adeguato per apprezzarne i pericoli insiti. Ergo, ricorso respinto.

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