La responsabilità del soggetto impresa negli infortuni sul lavoro

Con l’art. 9 legge 3 agosto 2007, n. 123, è stato inserito nel d.lgs. 231/2001 l‘art. 25-septies (omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro), poi sensibilmente modificato dall’art. 30 d.lgs. 81/2008, che estende la responsabilità amministrativa degli enti ai reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi o gravissime.

Per la prima volta nella storia dell’ordinamento nazionale è stata prevista la responsabilità degli enti per i reati di natura colposa, subordinandola all’interesse o vantaggio per l’ente stesso (risparmio di costi o tempi, ad esempio).

La colpevolezza dell’ente, pertanto, consisterà in primis in una “colpa di organizzazione”, conseguente alla mancata predisposizione di una struttura organizzativa interna dotata di efficacia preventiva rispetto alla commissione dei reati. Tale particolare tipologia di colpa sussisterà allorché l’ente non abbia adottato il Modello, ovvero abbia adottato Modelli inidonei o, pur avendo adottato Modelli idonei, non ne abbia efficacemente attuato i contenuti prescrittivi, in modo da prevenire reati della specie di quello verificatosi.

La Cassazione penale negli ultimi anni si è pronunciata sulla responsabilità amministrativa di svariate società ai sensi del decreto 231/01 a seguito di infortuni sul lavoro per reati commessi da datori di lavoro o preposti, e al riguardo è molto chiara la sentenza n. 11452/21 depositata il 25 marzo 2021.

 

Datore di lavoro e azienda contattati per un grave infortunio subito da un operaio

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del giugno 2019, aveva confermato la condanna già resa dal Tribunale di Modena nei confronti dell’amministratore unico di un’impresa di Costruzioni s.r.l., quale responsabile del reato di lesioni colpose gravi ai danni di un lavoratore. L’operaio, nel corso di lavori di rifacimento della copertura del tetto della stazione ferroviaria di San Felice sul Panaro, appaltati da RFI Italia, privo di cintura di sicurezza o di qualsivoglia sistema di trattenuta, era precipitato all’interno dell’edificio da un’altezza di circa cinque metri, attraverso un varco che si era improvvisamente aperto per il cedimento strutturale della soletta. La Corte di Appello aveva escluso nei confronti dell’azienda la sanzione interdittiva del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione ex art.9, comma 2, d.lgs n. 231/2001, confermando però quella pecuniaria irrogata in prime cure.

L’inchiesta evidenzia gravi lacune nelle misure di sicurezza per i lavori in quota

La Corte territoriale, condividendo quanto già ritenuto dal Tribunale, aveva osservato che il lavoro che si stava eseguendo non era limitato al controllo delle grondaie – attività per la quale era stato disposto un presidio di sicurezza costituito da un trabattello al quale il lavoratore si poteva agganciare mediante il moschettone della cintura di sicurezza -, bensì quello di risistemare il tetto per eliminare una perdita d’acqua, tanto che alcune tegole erano già state rimosse e trovate a terra, come accertato dal tecnico della Asl intervenuto sul luogo dell’incidente dopo venti/trenta minuti.

Nonostante l’altezza del tetto fosse di circa cinque metri non era stato predisposto alcun utile parapetto intorno all’edificio, come richiesto dalla normativa antinfortunistica, né gli operai erano stati dotati di idonea cintura di sicurezza da poter essere agganciata a punti “sicuri” del tetto stesso, non essendo stata rinvenuta sul luogo della caduta alcuna cintura.

Quanto al Pos, il Piano Operativo di Sicurezza, i giudici avevano reputato generiche le prescrizioni in esso contenute in tema di rischio di caduta dall’alto di persone, poiché in tale documento si faceva riferimento all’uso di scale e trabattelli ma non si menzionavano in alcun modo parapetti che circondassero gli edifici per salire sul tetto che doveva essere ristrutturato.

Ancora, la Corte territoriale asseriva che la posizione del responsabile della sicurezza non poteva escludere anche quella del datore di lavoro, garante della incolumità fisica dei prestatori di lavoro e tenuto in ogni caso a vigilare sull’operato del responsabile per la sicurezza e dei preposti.

Di qui la prova delle omissioni contestate all’imputato, a cui era stato mosso un addebito di colpa generica e la specifica violazione dell’art. 2087 cod.civ. e 148 del d.lgs n. 81/2008. Con riguardo al trattamento sanzionatorio, la Corte aveva infine confermato il giudizio di equivalenza delle attenuanti generiche concesse dal Tribunale, negando un bilanciamento in termini di prevalenza, in considerazione del grado della colpa e della gravità delle lesioni cagionate all’operaio, guarite oltre i quaranta giorni.

 

Il datore di lavoro e anche la (sua) società ricorrono per Cassazione

L’imputato ha quindi proposto ricorso per cassazione lamentando, in particolare, che la Corte territoriale avesse escluso un comportamento abnorme del lavoratore, al quale a suo dire era stato impartito il solo ordine di ripulitura della grondaia e non anche quello di ispezione e riparazione del tetto, e che non avesse considerato che le funzioni di responsabile della sicurezza erano state delegate a una figura ad hoc, un geometra.

Anche l’impresa ha proposto ricorso, deducendo mancanza ed illogicità della motivazione con riferimento all’art. 25 septies, comma 1, d.lgs 231/01 in relazione al delitto di lesioni colpose. La Corte territoriale, richiamando la sentenza di primo grado, avrebbe omesso di motivare e far comprendere il percorso logico per cui era stato ritenuto l’interesse o il vantaggio della società, costituito dal risparmio dei costi di esercizio dell’impresa consistiti nella mancata spesa per allestire i ponteggi necessari. Si sarebbe trattato di una motivazione illogica perché contrastante con la deposizione dell’ispettore della ASL, il quale aveva riferito che la ditta era in regola con la normativa antinfortunistica, tanto che non era stata elevata alcuna contravvenzione. Trattandosi poi di comportamento abnorme ed imprevedibile del lavoratore, anche la responsabilità della ditta doveva essere esclusa.

Reato estinto per prescrizione, ma per il resto la Cassazione rigetta i ricorsi

La Suprema corte premette subito che il reato di lesioni colpose gravi ascritto al datore di lavoro era estinto per prescrizione. “Il ricorso – spiegano gli Ermellini – non presenta profili di inammissibilità né sussistono le condizioni per pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art.129, comma 2, cod. proc. pen., ravvisabili soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, cosi che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento”.

Ma ai (soli) fini della pronuncia sull’illecito contestato alla ditta di costruzioni, “va comunque confermata, in via incidentale, la sussistenza del reato” prosegue però la Suprema Corte, ricordando come la stessa Cassazione abbia infatti affermato che, “in presenza della declaratoria di prescrizione del reato-presupposto della responsabilità amministrativa della persona giuridica, ai sensi dell’art. 8 d.lgs 231/2001, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio fu commesso l’illecito, non potendo però prescindersi da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto-reato; e che, peraltro, la differenziazione del regime di prescrizione del reato e dell’illecito amministrativo fondante la responsabilità delle persone giuridiche non può essere ritenuta irragionevole poiché si tratta di due ipotesi di responsabilità aventi natura diversa che giustifica il differente trattamento

 

Esclusa l’abnormità del comportamento dell’operaio

La Cassazione conviene con le motivazioni con cui la Corte territoriale aveva risposto “in maniera diffusa e corretta” al motivo di appello con il quale era stata dedotta l’abnormità del comportamento del lavoratore, rimarcando che dalla compiuta istruttoria “era emersa sia la totale assenza di presidi di sicurezza sia il fatto che l’attività di rimozione delle tegole dal tetto era già in corso nel cantiere, come attività dunque “concertata” e non frutto di una “iniziativa personale” del solo lavoratore infortunato

Immune da censure, secondo la Suprema Corte, anche l’argomentazione sviluppata dalla Corte di merito relativamente alla responsabilità del datore di lavoro nonostante la nomina di un responsabile per la sicurezza – la cui posizione comunque non è mai stata vagliata ed approfondita -, sul rilievo dell’assenza di una delega e della assoluta genericità del Piano Operativo di Sicurezza dell’epoca, così valutato dell’ispettore dell’Ausl in sede di sopralluogo dopo l’incidente .

 

La responsabilità “amministrativa da reato”

Ciò premesso, per i giudici del Palazzaccio il ricorso della società va rigettato. “Il decreto legislativo n.231/01 ha introdotto una nuova forma di responsabilità (definita espressamente “amministrativa da reato“), rappresentata da una fattispecie complessa in virtù della quale per configurare la responsabilità dell’ente è necessario non solo il compimento di un fatto-reato (tra quelli previsti ed elencati nella Sezione III), commesso da coloro che rivestono (in fatto o di diritto) una posizione apicale o persone sottoposte alla direzione e vigilanza degli organi della società, ma anche che tale condotta sia espressione della politica aziendale della società o quanto meno derivante da una colpa di organizzazione” spiega la Cassazione.

Nello specifico, poiché il reato di lesioni colpose è stato commesso dal datore di lavoro, soggetto in posizione apicale, che non ha certo agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, “l’ente deve rispondere dell’illecito salvo che, a mente dell’art.6 del citato d.lgs., non fornisca la prova di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, un modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.

L’interesse e il vantaggio

La sussistenza dell‘interesse (dal punto di vista soggettivo) o del vantaggio (considerato dal punto di vista oggettivo) – prosegue la sentenza – “è sufficiente all’integrazione della responsabilità, in caso di violazione della legislazione speciale in materia di sicurezza del lavoro ovvero del generale obbligo di tutela degli ambienti di lavoro sancito dall’art.2087 cod. civ. Nel caso in esame è stata contestata e correttamente ritenuta la violazione di entrambe le normative prevenzionali”.

La Corte di Bologna, nel ravvisare l’interesse dell’ente alla violazione delle misure di prevenzione, consistito nel risparmio dei costi di impresa corrispondente alla mancata spesa per il montaggio e l’impiego del materiale per realizzare il ponteggio necessario per lo svolgimento del lavoro in quota, aveva richiamato, facendola propria, la motivazione offerta sul punto dal Tribunale di Modena. “Il quale – osserva la Cassazione – aveva evidenziato, quanto all’interesse, che la condotta negligente del rappresentante legale della società cui era conseguita la carenza nell’adozione di cautele antinfortunistiche non era una semplice sottovalutazione del rischio, quanto piuttosto una consapevole scelta volta al risparmio dei costi e dei tempi di lavoro, e, quanto al vantaggio, che la s.r.l., già coinvolta in episodi analoghi, era del tutto disattenta alla materia della sicurezza, così che l’infortunio occorso era da porsi in relazione alla precisa scelta aziendale di contenimento della spesa e di massimizzazione del profitto”.

 

La sentenza “Thyssenkrupp”

Il primo giudice, al riguardo aveva anche fatto un apprezzato (dalla Cassazione) riferimento alla sentenza “Thyssenkrupp” delle Sezioni Unite (n.38343/2014), “ove si è affermato che l’idea di profitto deve essere conformata di guisa che sia coerente con le caratteristiche della fattispecie cui si riferisce… e si collega con naturalezza ad una situazione in cui l’ente trae da tale violazione un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di un’attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto. Qui si concreta il vantaggio che costituisce il nucleo essenziale dell’idea normativa di profitto”.

La Suprema Corte ribadisce che ricorre il requisito dell’interesse “quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire una utilità per la persona giuridica: ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi di impresa. Pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (facendo ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica di impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa, con conseguente massimizzazione del profitto. Il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dal suo organo apicale”.

Nel caso specifico, la società ricorrente, pur richiamando anch’essa tali principi di diritto, “non si confronta con quanto argomentato dai giudici di merito circa la totale assenza di dispositivi di protezione durante il lavoro di smontaggio delle tegole del tetto, ribadendo a propria difesa la tesi dell’autonoma ed imprevedibile decisione del lavoratore infortunato, rimasta smentita dal compendio istruttorio” conclude la Cassazione, rigettando il ricorso e confermando la condanna dell’azienda.

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