Va risarcita, in caso di diagnosi tardiva, la mancata possibilità di disporre le “scelte ultime”

Con una sentenza di altissimo profilo, la n. 10424/19 del 15 aprile 2019, la Corte di Cassazione, terza sezione Civile, ha affermato un diritto imprescindibile per una persona: quello di poter operare le “scelte ultime” della sua vita.

Un diritto che, se pregiudicato a causa di una tardiva diagnosi, va risarcito, al di là del fatto che l’errore medico abbia o meno determinato una contrazione dell’aspettativa di vita.

Perché qui la Suprema Corte distingue nettamente la lesione all’autodeterminazione su come “organizzare” le ultime fasi della propria esistenza e la perdita di chance legata alla malpractice sanitaria.

L’errata diagnosi e la citazione in causa

Gli Ermellini si sono trovati a pronunciarsi sul caso di una paziente deceduta a causa di un errore diagnostico dell’Asl di Lecce, a quanto lamentato dai suoi familiari.

Alla loro cara, dopo essere stata sottoposta, nel 1996, presso il presidio ospedaliero di Copertino, ad un intervento, eseguito in laparotomia, di asportazione bilaterale delle ovaie, nel mese di luglio veniva comunicato l’esito dell’esame istologico, che evidenziava l’asportazione di fibroma benigno.

Tuttavia, la donna, colpita mesi dopo da nuovi dolori nella zona pelvica, si ricoverava presso l’azienda ospedaliera di Padova, ove, nel marzo del 1997, all’esito di una rinnovata valutazione dei vetrini del precedente esame, le veniva diagnosticato un sarcoma del tessuto muscolare liscio che la portava alla morte il 19 ottobre 1997.

I familiari hanno citato in causa l’Azienda sanitaria leccese per conseguire il risarcimento dei danni, “iure proprio” e “iure hereditatis”, conseguenti al decesso della loro congiunta, ritenendo che l’errore diagnostico – impedendo una diagnosi precoce del tumore – avesse privato la loro cara della possibilità di rimediare a tale patologia, e dunque di evitare il decesso, ovvero, che esso, in ogni caso, avesse privato la donna di “chance” di maggiore e migliore sopravvivenza, incidendo comunque sulla qualità della sua vita residua.

 

I giudici di primo e secondo grado respingono le richieste

All’esito del giudizio di primo grado, dopo aver disposto una Ctu medico-legale, la domanda veniva però integralmente rigettata, con decisione confermata – senza rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio – dalla Corte di Appello di Lecce.

Per riassumere, secondo i giudici di primo e di secondo grado “pur ipotizzando una corretta diagnosi sin dal giugno 1996”, la stessa sarebbe stata priva di “conseguenze terapeutiche, sia in termini di guarigione, sia in termini di possibilità di cura che potevano incidere sulla qualità della vita della paziente stessa”, e ciò in ragione del fatto che l’intervento immediatamente praticato (una “isterectomia totale con anessiectomia bilaterale”), costituiva “intervento di elezione anche in caso di carcinoma maligno (nella specie sussistente, seppure ancora non diagnosticato)”.

 

La “lezione” della Cassazione sul fine vita

Ma è proprio qui che la Cassazione dissente e accoglie una delle doglianze dei familiari della vittima.

“Il ricorso merita accoglimento – sentenziano gli Ermellini -, laddove censura la sentenza impugnata – tanto con il primo motivo, “sub specie” di carenza assoluta di motivazione, quanto con il secondo, per violazione (nella sostanza) dell’art. 2059 cod. civ., per aver identificato i danni astrattamente risarcibili nel caso di specie, in particolare tra quelli fatti valere “iure hereditatis” dagli odierni ricorrenti, esclusivamente nella perdita di chance di guarigione, ovvero di più prolungata (e qualitativamente migliore) sopravvivenza alla patologia ad esito letale da cui la paziente era affetta”.

I giudici del Palazzaccio ricordano come già in passato, con riferimento a fattispecie di omessa tempestiva diagnosi di patologie oncologiche ad esito, comunque, infausto, la stessa Corte di Cassazione abbia ritenuto erroneo affermare che tale condotta “non abbia inciso sulla qualità di vita del paziente: una simile affermazione, infatti, non tiene in debito conto, innanzitutto, la possibilità che – nel lasso di tempo intercorso tra la diagnosi errata e quella esatta – il paziente abbia visto perdurare il suo stato di sofferenza fisica senza che ad esso potesse essere apportato un qualche pur minimo beneficio perché vi era stata quella diagnosi erronea”.

La Suprema Corte, come rilevato dai ricorrenti, imputa alla Corte territoriale di aver mancato di considerare che “da una diagnosi esatta di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto consegue che il paziente, oltre ad essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità di scelta vi sia, «che fare» nell’ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, è anche messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell’essere si esprime, in vista di quell’esito”.

 

Risarcimento per perdita di chance

Dunque, negando rilievo a tale tipo di danno, il giudice di appello, come già quello di prime cure, è incorso un grave vizio che inficia irrimediabilmente la sentenza impugnata.

“La Corte salentina, difatti – prosegue la sentenza della Cassazione – ha incentrato la propria (scarna) motivazione, a supporto del rigetto della domanda risarcitoria proposta dagli odierni ricorrenti, esclusivamente sull’assenza di prova – attestata dall’espletata, duplice, CTU – che la ritardata diagnosi del carcinoma abbia compromesso chance di guarigione della paziente o, quantomeno, di maggiore (e migliore) sopravvivenza.

Così ragionando, tuttavia, essa ha ignorato che il ritardo diagnostico (peraltro, acclarato come sicuramente negligente) ha determinato la perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, non configurabile alla stregua di un «quantum» (eventualmente traducibile in termini percentuali) di possibilità di un risultato o di un evento favorevole (secondo la definizione elementare della chance comunemente diffusa nei discorsi sulla responsabilità civile), ma apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto”.

Ebbene, la lesione di tale libertà è rimasta priva di ogni considerazione da parte della sentenza impugnata, “ovvero quella di scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita: una situazione, questa, meritevole di tutela al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta”.

 

La condotta colpevole del sanitario

La Suprema Corte torna anche a sottolineare l’autonomia che tale tipo di danno presenta rispetto a quello da “perdita di chance”, pure ipotizzabile in caso di “malpractice” sanitaria.

“Si è infatti affermato che, quando la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, «in pejus», sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente, si è in presenza di un evento di danno e di un danno risarcibile che è in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualità della vita, da intendere anche nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo”, e ciò senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance”.

In definitiva, in presenza di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce, come ha ritenuto la Corte d’Appello salentina, “nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente (privato, in ipotesi, della possibilità di guarigione o, in alternativa, di una più prolungata – e qualitativamente migliore – esistenza fino all’esito fatale)”, ma include anche “la perdita di un ventaglio di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, giacché, tutte queste scelte appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali.

 

Le libertà dell’individuo

A supporto di queste affermazioni gli Ermellini citano i numerosi interventi degli ultimi anni del legislatore per dare rilievo e tutela a questa estrema, libertà dell’individuo.

E citano la legge 15 marzo 2010, n, 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore), recante un “corpus” di norme aventi come scopo, tra l’altro, anche la “tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine”.

Ancora, la legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la quale – all’art. 4 – riconosce ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”, la possibilità sia di “esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”, sia di nominare, al medesimo scopo, un fiduciario, stabilendo, nel contempo, che tali direttive anticipate sono “rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento”.

 

L’autodeterminazione

“L’autodeterminazione del soggetto chiamato alla più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine, non è, dunque, priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione”: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione, perché “anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose”.

La Suprema Corte conclude questa appassionata sentenza addirittura con una citazione letteraria tratta dalle “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, una delle scrittrici più autorevoli della letteratura del Novecento, per affermare che l’ordinamento giuridico non è affatto indifferente all’esigenza dell’essere umano di “entrare nella morte ad occhi aperti”.

Dunque, il ricorso è stato parzialmente accolto e la sentenza impugnata è stata cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione, affinché decida in ordine alla domanda di risarcimento del danno “iure hereditatis” dei ricorrenti e perché si pronunci – nel rispetto di questi principi – sulla richiesta di ristoro del pregiudizio cagionato alla qualità della vita della paziente.

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