Risarcimento danni da malasanità: la guida completa

Con l’introduzione della legge Gelli (n. 24 del 2017) il legislatore ha ridefinito i principi generali in materia di “responsabilità medica”, che si riferisce a tutti quei comportamenti dei sanitari, che siano azioni od omissioni, che abbiano cagionato un pregiudizio al bene “salute” del paziente: quando un soggetto ritiene di aver subito un danno per un errore medico presso una struttura sanitaria potrà richiedere alla stessa un risarcimento per quanto subito.

Sul punto, una delle problematiche più controverse e discusse negli ultimi decenni è stata quella relativa alla qualificazione giuridica della responsabilità medica verso il paziente, con riferimento tanto al medico quanto alla struttura sanitaria (Azienda Sanitaria Locale, azienda facente capo al Servizio Sanitario Nazionale, articolata in distretti sanitari di base) presso cui sono avvenute le cure.

Responsabilità: azienda sanitaria o medico?

E’ sempre la legge Gelli a distinguere la fonte della responsabilità medica di un’azienda sanitaria rispetto a quella del medico che vi lavora. Comprendere la differenza tra i due tipi è fondamentale soprattutto per identificarne la natura contrattuale od extracontrattuale, che condiziona, innanzitutto, i tempi di prescrizione dal fatto per un’eventuale domanda di danni. Per ciò che concerne l’azienda, la natura della responsabilità è contrattuale, quindi la prescrizione per chiedere un risarcimento sarà di dieci anni. Quando un soggetto riceve delle cure e ritenga che un errore commesso nel loro contesto abbia determinato un danno deve munirsi di un valente parere medico legale e specialistico (la complessità del caso determinerà se sia sufficiente il parere del primo o se sia opportuno avere una perizia collegiale) e inviare all’azienda la sua richiesta di risarcimento attraverso un legale che lo rappresenti.

In questa, per conto del paziente, l’avvocato ha l’onere non solo di evidenziare il danno che si ritiene subìto (per esempio il peggioramento delle proprie condizioni di salute) e il rapporto avuto con l’ospedale, ma anche di allegare e dimostrare (senza per forza già produrre la perizia a proprie mani) il collegamento tra la condotta imperita dei sanitari che hanno eseguito le cure e il danno alla salute. Tecnicamente, il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta o non esattamente adempiuta – il paziente – non deve immediatamente provare la colpa dell’azienda, ma dovrà essere in grado di dimostrare (e quindi per questo potrà già affermarlo nella prima richiesta) il nesso di causa tra la condotta del debitore – e cioè l’azienda sanitaria – e il danno patito di cui sta chiedendo il risarcimento.

 

L’importanza della perizia medico legale e l’Atp

Proprio per dimostrare l’eziologia, cioè il legame materiale tra il danno con il comportamento “colpevole”, nelle richieste per un’asserita responsabilità medica è opportuno, se non indispensabile, essersi già premuniti di una perizia medico legale di parte, poiché questa sta alla base delle ragioni per formulare una domanda corretta ed ammissibile. Va a questo punto evidenziato che una valida e importante perizia medico legale in un’eventuale, futura causa non ha valore probatorio, bensì di mera allegazione difensiva. Tuttavia è l’unico assunto che consente al danneggiato di argomentare in modo circostanziato su ciò che presume essere l’errore medico che ha cagionato il danno stesso, anche al fine di evitare che una richiesta di consulenza tecnica d’ufficio medico-legale formulata in corso di causa possa essere dichiarata inammissibile poiché “esplorativa”.

Quando l’azienda sanitaria dovesse negare una qualche responsabilità, il paziente danneggiato, che non ha altro modo di veder soddisfatto il suo diritto al risarcimento, proporrà quasi sicuramente un ricorso per Atp, l’Accertamento tecnico preventivo, avendo già a sue mani una buona perizia medico legale, così da presentare al giudicante l’oggetto del giudizio, definendo anche quale sia la prova contraria che deve fornire la struttura sanitaria di controparte per negare tale diritto (al netto della prova di eventuali ulteriori danni pure collegati, ma estranei alla scienza medica).

 

Gli accertamenti interni dell’Asl

Il paziente, quindi, a mezzo del legale incaricato, eseguirà una prima diffida formale all’Asl, circostanziando la situazione a cui viene ricollegato il diritto al risarcimento. A questo punto l’azienda sanitaria protocollerà la richiesta ed opererà degli accertamenti interni per verificare lo svolgersi dei fatti legati a quel certo ricovero e/o fatto operatorio e/o terapia prescritta o comunque all’accesso presso la struttura di quel paziente. Si ribadisce come sia opportuno che già la prima domanda sia supportata da idonea documentazione medico legale che possa dimostrare il danno causato dall’ospedale (che la perizia venga solamente richiamata, o anche allegata, è secondario).

 

L’ipotesi dell’accordo stragiudiziale

Dopo aver protocollato la richiesta può accadere che l’azienda sanitaria apra prontamente il sinistro presso la propria compagnia assicurativa, spesso già evidenziando le informazioni raccolte dai propri sanitari ed allegando eventuali relazioni che descrivano i fatti. Laddove, da un’indagine interna, risulti evidente l’errore sanitario, è facile che l’assicurazione sottoponga il paziente ad una visita medico legale presso un incaricato e fiduciario della compagnia stessa. Questa situazione presuppone che sia anche confermata la copertura assicurativa. Se i risultati delle visite medico legali (quella di parte e quella svolta dalla compagnia assicurativa della Asl) si avvicinano, è possibile riuscire a raggiungere un accordo e comporre la vertenza in via stragiudiziale, concordando un eventuale risarcimento con un’intesa definita di tipo transattivo.

Va detto che spesso, da una prima indagine interna e richiedendo le relazioni ai medici direttamente coinvolti nella vicenda del paziente, a meno di situazioni palesemente evidenti, si tende a descrivere una situazione per lo più scevra da errori e che, quindi, non comporti in seno all’azienda sanitaria alcuna responsabilità. Le Asl, nella quasi totalità, sono dotate di medici specialisti che fungono da consulenti per la valutazione delle possibili situazioni di responsabilità sanitaria ove sia stato richiesto un risarcimento.

 

La gestione della pratica del comitato interno

Dopo l’istruttoria interna (con relazioni dei sanitari coinvolti e, quindi, con la ricostruzione della vicenda tramite il racconto dei soggetti intervenuti in prima persona), laddove se ne ravveda necessità anche dopo una perizia medico legale (ad opera di uno specialista interno o meno), viene effettuata una riunione a mezzo di un comitato ad hoc. Questa parte della vicenda interesserà l’Azienda sanitaria soprattutto se la richiesta di risarcimento non è “sopra Sir” (Self Retention Insurance), ovvero la “franchigia” entro cui le Asl sopportano in proprio le eventuali conseguenze economiche. Quindi sopra alcuni valori vi è la compagnia assicurativa che prende in carico tutta la gestione, mentre per le richieste di cui si farà comunque carico l’Azienda, perché entro la franchigia, è quest’ultima a proseguire, gestendole internamente.

Proprio in questo caso con una gestione “sotto franchigia”, dopo l’istruttoria e dopo la perizia, la decisione su come rispondere alla richiesta risarcitoria spetta ad un comitato interno. A seconda della regione esso può assumere nomi diversi quali per esempio Comitato Centrale o Nucleo di Valutazione: in alcuni casi, a livello regionale, si è optato per interessare, dopo che il Comitato Centrale ha assunto le determinazioni del caso, anche un successivo Comitato Aziendale. Alla fine di questo iter che si svolge con tale, articolata procedura, l’Azienda Sanitaria competente decide se rigettare la richiesta di risarcimento o se vi siano i presupposti (quindi con una riscontrata effettiva responsabilità) per cercare di raggiungere una definizione, o quantomeno intavolare una trattativa.

 

La comunicazione diretta ai sanitari

Dopo aver protocollato ed avviato l’indagine interna, l’Azienda, sempre per un’epocale novità introdotta dalla già citata Legge Gelli, deve comunicare all’esercente la professione sanitaria che sul suo operato è stato instaurato un possibile procedimento di responsabilità promosso da un presunto danneggiato nei confronti della struttura sanitaria. Questa comunicazione viene regolata dall’art. 13 della Legge n. 24 e introduce un concetto importante poiché, se da un lato tutela il sanitario da un diretto interessamento che lo vede già protagonista del possibile contenzioso, dall’altro lo vede comunque coinvolto ed informato della vicenda descritta in sede di richiesta risarcitoria e in cui ha operato. L’importanza di coinvolgere comunque i sanitari non è solo quello di informarli, ma anche di poter analizzare più approfonditamente quanto accaduto e ciò che viene ritenuto fonte di responsabilità sanitaria da parte del paziente.

Il legislatore obbliga quindi l’azienda a una comunicazione ai propri medici dipendenti, sia perché è giusto e corretto che sappiano dell’inizio di un giudizio che coinvolge aspetti della cura fornita strettamente legati al loro operato, sia perché possano ricostruire più dettagliatamente quanto fatto. Tale comunicazione deve riguardare anche le trattative interconnesse alla vicenda e, su queste, la letteratura giuridica si divide se debbano essere stragiudiziali, laddove già un giudizio esista, o debbano prescindere dall’esistenza di un contenzioso e possano poi legittimamente, all’esito delle indagini interne, portare l’azienda sanitaria a decidere sulla convenienza della chiusura del danno quando è prevedibile che una causa possa comportare rischi troppo elevati.

L’azienda deve anche ben valutare chi siano esattamente i soggetti a cui debba essere comunicato della richiesta risarcitoria ricevuta. Anche qui c’è chi sostiene che vadano coinvolti i soggetti che il danneggiato nomina espressamente nella domanda, mentre per altri la notifica va estesa a tutto il personale che possa in qualche modo aver partecipato alle cure fornite. Si pensi ad esempio a chi partecipa ad una équipe, ma che non ha direttamente avuto un ruolo nello specifico errore imputato all’azienda dal paziente, e così anche tutto il resto del personale non prettamente medico che possa averlo avuto comunque in cura.

 

La possibile rivalsa

E bene sapere, infine, che l’Asl risponde dei danni cagionati dai propri medici dipendenti, ma in alcuni distinti e specifici casi essa, avuta contezza di ciò che realmente è successo nel singolo caso, potrà rivalersi nei loro confronti. Quindi anche dove il paziente le imputi la responsabilità e chieda ad essa il risarcimento, nell’operare la formazione della “pratica” interna l’azienda sanitaria, avuti sufficienti dati relativi alla vicenda, potrà poi esercitare, laddove dovesse liquidare un danno, un’azione di rivalsa nei confronti del sanitario che ha curato il paziente danneggiato. Qualora ometta di farlo, potrebbe intervenire anche la Corte dei Conti per responsabilità erariale.

 

Dolo o colpa grave

E’ sempre la Legge Gelli a regolare questo specifico aspetto stabilendo, all’art. 9, che la rivalsa potrà essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave. Se per il concetto di dolo (situazione limite in cui il sanitario voleva cagionare un danno al paziente) non paiono porsi particolari problemi, più delicato è il concetto di colpa grave. Per definire tale paradigma normativo si può fare riferimento all’elaborazione giurisprudenziale delle Corti amministrative in tema di azione di rivalsa e responsabilità amministrativa: “non ogni condotta diversa da quella doverosa implica colpa grave, ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia e che sia posta in essere senza l’osservanza, nel caso concreto, di un livello minimo di diligenza, prudenza o perizia livello minimo che dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente e dalla sua particolare preparazione professionale e ancora, sussiste la colpa grave: quando il medico ometta di compiere un’attività diagnostica e terapeutica routinaria, atta a scongiurare determinate complicazioni” per citare la Corte dei Conti Sicilia, n. 1015 del 28.03.2015. Insomma la colpa grave deve intendersi come: “sprezzante trascuratezza, straordinaria ed inescusabile negligenza o imprudenza, grossolana superficialità, particolare noncuranza“. Secondo quanto disposto dalla novella legislativa, dunque, può esservi azione di rivalsa quando è accertato il dolo o la colpa grave dell’esercente della professione sanitaria, mentre nell’ipotesi di danno provocato da colpa lieve o lievissima, l’azienda ospedaliera non potrà compiere alcuna azione.

 

Tutte le complessità della malpractice medica

In definitiva, è evidente che l’azienda ospedaliera, quando riceve una richiesta di “messa in mora” da parte di un paziente, la protocolla. In questa lettera (redatta per lo più a mezzo di un legale e accompagnata o meno da adeguata documentazione medico legale), il soggetto scrivente fornisce gli elementi utili a identificare l’episodio ritenuto alla base della richiesta risarcitoria e così consente all’azienda stessa di circostanziare il fatto, identificare i possibili soggetti coinvolti ed esaminare il nesso causale richiamato. Quindi, dopo la protocollazione della richiesta, l’azienda verifica se vi sia la copertura assicurativa, diversamente “gestisce direttamente” procedendo l’esame del caso.

E’ usuale che in questa fase l’Asl chieda la sottoscrizione di un modulo di consenso al trattamento per i dati sensibili del paziente. Come si è visto è possibile che il soggetto che abbia richiesto il risarcimento abbia già allegato alla richiesta una perizia medico-legale; diversamente, l’azienda potrebbe chiederla a integrazione della domanda risarcitoria. La struttura sanitaria, quindi, si servirà delle relazioni interne dei medici coinvolti o dei dirigenti di II livello del reparto (l’equivalente della figura del primario), per poi incaricare medici legali interni all’azienda stessa.

Una volta che la struttura sanitaria valuti i profili di responsabilità e raggiunga delle conclusioni sul caso specifico, si deciderà se discuterne in seno a un organismo di tipo assembleare, che si può chiamare (il più delle volte) Comitato. All’esito di queste riunioni la Struttura fornisce una risposta ufficiale al legale che ha proposto la richiesta risarcitoria. Le trattative possono addivenire ad una liquidazione del danno che soddisfi possibilmente entrambe le parti, cosicché non si debba arrivare alla successiva fase giudiziale. Come detto sia a proposito delle trattative sia, tanto più, della successiva fase giudiziale, l’Asl dovrà notiziare formalmente i medici coinvolti. Tutte le volte che, invece, la struttura non ritenga di instaurare un dialogo – e cioè non sia interessata a trattative (per esempio perché esclude fermamente una qualche responsabilità) – il paziente dovrà azionare la richiesta risarcitoria nel modo normativamente previsto o presso un Organismo di Mediazione o a mezzo di un Accertamento Tecnico Preventivo svolto nella forma dell’art. 696 bis c.p.c., che prevede specificamente un’ipotesi di conciliazione  laddove sia riconosciuta una responsabilità medica.

Solo dopo questo penultimo passaggio – l’ultimo tassello se dovesse fallire una transazione stragiudiziale o una conciliazione -, vi sarà la causa vera e propria innanzi all’autorità giudiziaria competente.

Avv. Stefania Trivellato

Foro di Venezia

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